Quando spira il vento della polarizzazione la realtà rischia di trasformarsi in un enorme stadio nel quale le tifoserie, mosse dalla corrente, si oppongono l’una rispetto all’altra e ogni azione dei singoli è determinata dall’onda del gruppo.
Il quadro descrive un contesto molto più piacevole di quanto non sembri agli occhi dei più schizzinosi… Uno scenario ordinato, malgrado l’apparente e volutamente artificioso fermento, nel quale le posizioni sono stagliate e non vi è possibilità di confusione. Né di comprensione del fenomeno e tantomeno di evoluzione, potremmo aggiungere.
Con i dovuti distinguo, questa è la situazione in cui ad oggi versano le biotecnologie per la filiera agroalimentare. Da un lato incentivate da programmi di sviluppo comunitari e locali, dall’altro penalizzate da politiche conflittuali.
Nuove tecniche genomiche: è già finito l’entusiasmo?
Per non abbandonare la metafora dei compartimenti stagni, la recente adozione da parte del Parlamento europeo del proprio mandato per i negoziati con i governi UE in merito alla proposta della Commissione sul “Regolamento sulle nuove tecniche genomiche (Ngt, New genomic techniques)” ha comunque diviso le opinioni: 307 voti favorevoli, 263 contrari, 41 astensioni. Il regolamento, com’è noto, esenta le “Tecniche di evoluzione assistita (Tea)” dalla maggior parte dei requisiti di sicurezza previsti per gli organismi geneticamente modificati.
Come anche sottolineato a valle della votazione dalla relatrice Jessica Polfjärd, che ha anche invitato gli Stati membri a prendere tempestiva posizione, la norma è chiaramente stata immaginata e scritta con l’obiettivo di rendere il sistema alimentare più sostenibile e resiliente sviluppando varietà vegetali migliorate, resistenti al cambiamento climatico e ai parassiti, correlate a rese più elevate e meno dipendenti dall’uso di fertilizzanti e pesticidi.
Ma andiamoci piano… Ad oggi, il testo approvato dal Parlamento Europeo è paradossalmente fermo.
I prodotti Ngt già fra noi
Sono già numerosi e documentati gli esempi di applicazione delle nuove tecniche genomiche potenzialmente funzionali al contenimento degli sprechi e delle emissioni di CO₂ anche con l’ottenimento di prodotti migliori. Tecniche su cui l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) si è già espressa con una valutazione pubblicata lo scorso 11 luglio.
Un esempio su tutti, il caso delle banane che non imbruniscono, prodotte nelle Filippine, che si stima possano ridurre lo spreco alimentare e le emissioni lungo la catena del valore di più del 25%. Il frutto più esportato al mondo vede peraltro la propria posizione messa a repentaglio dai cambiamenti climatici, dalle coltivazioni intensive, dall’annientamento della biodiversità (ne esistono un migliaio circa di varietà ma se ne commercializzano pochissime, quasi solo la Cavendish) e dal massiccio uso di pesticidi. Per non parlare della minaccia rappresentata dal Fusarium tropical race 4 (Tr4), un fungo patogeno presente nel suolo che aggredisce le radici della pianta causando la cosiddetta malattia di Panama (Fusarium wilt). Le iniziative a tutela delle coltivazioni di questo frutto stanno cercando in molti modi di sfruttare le innovazioni scientifiche per sviluppare soluzioni sostenibili a riguardo.
Nel futuro prossimo è prevista la commercializzazione di altre piante Ngt, fra cui l’erba medica con composizione di sostanze nutritive modificata, la soia con composizione modificata degli acidi grassi, una varietà di grano con maggior contenuto di fibre, un riso resistente agli erbicidi e una colza con baccelli più stabili. In Europa, è stata richiesta l’immissione sperimentale nel mercato per il mais e i broccoli Ngt e sono attualmente in corso studi sulle patate e sul grano Ngt. Le sole Corteva (DowDuPont/Pioneer) e Bayer/Monsanto, dall’alto della loro posizione di leadership (controllano il 40% del mercato mondiale delle sementi) e delle ampie possibilità di investimento, hanno già fatto richiesta di oltre 1.500 brevetti per piante Ngt a livello globale.
La breve storia tristissima del riso Crispr
Un team dell’Università degli studi di Milano guidato da Vittoria Francesca Brambilla (docente associata presso il Dipartimento di scienze agrarie e ambientali) è stato il primo gruppo di ricerca del Paese a presentare domanda di autorizzazione per la coltivazione di una varietà di riso modificata con Crispr/Cas9 resistente a una malattia fungina, aprendo nuove prospettive per la genetica agraria del nostro Paese.
L’editing ha riguardato tre delezioni nelle sequenze codificanti di altrettanti geni che influenzano la suscettibilità a Pyricularia oryzae, il fungo responsabile del brusone del riso, una malattia devastante a livello globale, per la quale esiste un numero limitato di agrofarmaci con rilevante impatto ecologico. L’autorizzazione è stata concessa dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) e la sperimentazione ha preso il via con la semina, in primavera, presso un’azienda agricola di Mezzana Bigli, nei pressi di Pavia.
Per farla breve: il 20 giugno un manipolo di facinorosi ha sradicato le piantine, tagliandole e gettandole in acqua. Il primo campo italiano sperimentale di riso ottenuto con Tea è stato così distrutto.
I sondaggi restituiscono l’immagine del Paese
Non deve dunque stupire, come emerso anche nel corso dell’Assemblea generale di Assobiotec che si è tenuta il 25 giugno a Roma, che quattro italiani su cinque pensino che nell’agricoltura biologica si usino le biotecnologie e che solo il 22% degli intervistati da YouDem (survey “Le biotecnologie nell’immaginario degli italiani”) ritenga che l’agricoltura sia l’ambito in cui il biotech può portare più benefici.
Eppure, la morsa della fame che stringe il pianeta è un chiaro esempio di come le risorse alimentari siano insufficienti e le tecniche tradizionali di agricoltura (troppo idrovore, troppo energivore, troppo poco sostenibili) non possano più rispondere alle esigenze della realtà attuale, ma anzi rientrino esse stesse fra le principali criticità.
Il ruolo (se vuole assumerselo) della comunicazione
Stante il quadro descritto, risulta evidente come non si possa bollare il fenomeno come un risultato bizzarro della mancanza di cultura scientifica delle masse, perché alle masse qualcuno la cultura scientifica la dovrà pur trasmettere. Domandiamoci quindi, in termini concreti, cosa possa fare, ad esempio, la comunicazione per contribuire a dipanare una matassa sempre più intricata e ispida.
Perché è evidente che sia chiamata ad agire: troppe volte la pur plausibile volontà di offrire contenuti fruibili e cliccabili spinge oltre la misura, verso la banalizzazione, la semplificazione estrema. Ma ciò non significa forse soffiare sul fuoco dell’ignoranza? Trattare il pubblico da incompetente, incapace di apprendere e capire, non sortisce altro risultato che depotenziare qualsiasi tentativo o sforzo di comprensione e continuare a legittimare comportamenti illogici.
Dobbiamo assumerci una nuova responsabilità, negli ultimi tempi sbiadita dalla frenesia del fare a scapito del pensare a come fare: quella di raccontare le cose come stanno, senza prendere posizioni e offrendo al lettore più strumenti possibili per formarsi una propria idea. Libera.