L’intelligenza artificiale, o dell’imbarazzo di non saperle dare del tu

È come un allievo prodigio che ha già superato il maestro, ma resta zitto. L’intelligenza artificiale è tra noi, e non sappiamo se chiamarla collega, macchina o creatura. Intanto, la scienza cerca di studiarla, la società di domarla, e noi tutti… di capirla

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C’è una forma nuova di intelligenza che si aggira tra noi. Non prende il caffè alla macchinetta, non ha un badge al collo, non si presenta all’assemblea condominiale. Eppure lavora, ascolta, suggerisce, scrive, disegna, diagnostica. Fa curriculum senza mai aver fatto uno stage. La chiamiamo Intelligenza Artificiale, o AI per chi va di fretta.

Non sappiamo ancora se darle del tu o del lei. Se trattarla da collega, da strumento o da potenziale sostituto. Ma intanto ci conviviamo, come con quei parenti acquisiti di cui non sappiamo bene cosa pensare. Le parliamo con una certa diffidenza, e lei – per ora – risponde con una cortesia sospetta. Ma imparare, impara. E in fretta.

Il grande ritorno del Ragionamento (con la R maiuscola)

Per anni l’AI sembrava una cosa da nerd: reti neurali, deep learning, ottimizzazione stocastica. Roba da ingegneri e data scientist con la felpa di Stanford. Poi sono arrivati i modelli linguistici, e l’intelligenza artificiale ha iniziato a parlare. E quando qualcuno parla bene, lo si ascolta – anche se non capisce quello che dice.

Ora però il dibattito torna alle origini. Gli scienziati si sono chiesti: ma queste macchine, ragionano? Intendiamoci: sanno risolvere problemi? Dedurre? Capire che “se piove, le strade sono bagnate”? Oppure fanno solo finta, un po’ come noi quando annuiamo in una conversazione che non capiamo?

Il report dell’AAAI 2025  – Association for the Advancement of Artificial Intelligence (AAAI) che se vuoi puoi scaricare a questo link – parla proprio di questo: di come la macchina possa esprimere una forma di reasoning autentico. Magari mischiando logica e apprendimento, simboli e neuroni. Una specie di Frankenstein epistemologico, ma con buone intenzioni.

Le verità in saldo e i bugiardi involontari

L’altro tema, che fa venire il mal di testa a filosofi e giuristi, è quello della verità. I modelli generativi, ormai lo sappiamo, raccontano bene. Sono persuasi, convincenti, ma non sempre accurati. Mentono? No. Semplicemente non sanno cosa significhi “vero”.

E noi, poveri umani, abbiamo un riflesso condizionato: quando qualcuno – fosse pure una macchina – parla bene, pensiamo che abbia ragione. E quando sbaglia? Ce la prendiamo con chi l’ha costruita, come con l’aspirapolvere che si incastra nei tappeti. Soltanto che l’AI non è una macchina che si limita a pulire il pavimento: scrive diagnosi, suggerisce farmaci, corregge compiti in classe.

Il report propone mille rimedi: filtri, verifiche, fonti. Ma sotto sotto resta la domanda: possiamo convivere con un’intelligenza che simula la verità, ma non la riconosce?

Agenti, fantasmi, compagni: cosa vogliamo che siano?

In un angolo del rapporto si parla di AI Agents. Non quelli dei servizi segreti, ma quelli capaci di agire, decidere, collaborare. Il sogno è creare una co-agency: uomini e AI che lavorano insieme. Ma come? Con quali regole? Chi comanda?

Si parla di agenti modulari, trasparenti, capaci di adattarsi. Ma intanto, nei call center, le AI già rispondono. Nelle fabbriche, controllano. Nelle diagnosi, suggeriscono. Non più strumenti, ma quasi soggetti. Come se uno scalpello iniziasse a decidere dove colpire il marmo.

E il problema non è tecnico, è sociale. È psicologico. È quasi religioso. Stiamo creando entità con cui dovremo dialogare, magari affezionarci. Ma senza sapere cosa siano. Non è solo un tema di programmazione: è una questione di ontologia quotidiana.

La scienza che misura l’immeasurabile

Uno dei passaggi più affascinanti del rapporto è dedicato alla valutazione dell’intelligenza. Cioè: come si misura una macchina che evolve, apprende, cambia? Che si comporta bene in un contesto e malissimo in un altro? La risposta è: non lo sappiamo ancora.

I benchmark attuali – le classifiche, i quiz, le sfide – sono come test di cultura generale dati a un poeta. L’AI li passa, ma forse non è quello il punto. Forse l’AI andrebbe valutata anche per come convive, per come media, per quanto fa sbagliare noi, quando ci fidiamo troppo.

Siamo ancora lontani da una vera “scienza della valutazione”, ma almeno ci stiamo accorgendo che serve. E non è poco.

I nuovi oracoli della scienza

Poi ci sono le promesse. Le più lucenti, le più euforiche. L’AI che scopre farmaci, che individua proteine, che formula ipotesi scientifiche. Il sogno dell’automated science: una scienza che lavora da sola, mentre noi ci occupiamo di scrivere articoli su quanto sia bella e pericolosa.

Ed è un sogno legittimo. L’AI ha già dato frutti veri: molecole candidate, proteine strutturate, pattern rivelati. Ma anche qui, il rischio è l’ubriacatura. Come ogni apprendista stregone, l’AI può generare soluzioni che non sappiamo interpretare. E la scienza, senza interpretazione, è come una sinfonia letta senza orecchie.

Umanissimi dilemmi, disumanamente urgenti

Il nodo finale – l’eterno problema dell’etica – è forse il più ineludibile. Le macchine non hanno morale. Ma le loro decisioni possono avere effetti morali. Possono escludere, discriminare, selezionare. Possono decidere chi vive e chi muore, letteralmente, in un triage automatizzato. E noi siamo qui a chiederci: chi gliel’ha insegnato?

La risposta è: noi. O meglio, i nostri dati. Le nostre scelte passate. I nostri bias, le nostre storture. L’AI è uno specchio, ma uno specchio moltiplicato per miliardi. Ci mostra chi siamo – anche se non vorremmo vederlo.

E allora il problema non è solo tecnico. È politico. È educativo. È quasi identitario: che tipo di intelligenza vogliamo al nostro fianco, mentre proviamo a prenderci cura della vita umana?

Le buone maniere dell’intelligenza

Il problema è forse di etichetta? Non sappiamo ancora se darle del tu, se invitarla a pranzo, se assegnarle un nome. La chiamiamo AI, ma dentro quel nome ci sono mille cose: un motore di raccomandazioni, un compagno di studio, un consulente oncologico, un bugiardo inconsapevole.

Sta a noi decidere che rapporto vogliamo costruire. Con pazienza, con umorismo, con vigilanza. E, perché no, con un po’ di tenerezza. Perché in fondo – anche se non ha cuore – questa strana creatura di numeri e dati è nata da noi. E, come ogni figlio che cresce in fretta, ci costringe a imparare di nuovo chi siamo.