I segni sono piuttosto chiari: con la nuova amministrazione, negli Stati Uniti è in atto un massiccio processo di potenziamento della produzione industriale interna. È di questi ultimi giorni (al momento della redazione dell’articolo, n.d.r.) la notizia del super investimento, si parla di 50 miliardi di dollari, da parte di Roche per rafforzare la propria presenza oltreoceano. Un annuncio che replica quello di numerose altre Big Pharma e che viene letto globalmente come una risposta all’imposizione di dazi doganali del 25% sul valore del prodotto che rendono svantaggiosa la delocalizzazione della produzione, dopo anni di outsourcing verso Paesi caratterizzati da costi della manodopera minori come Cina e India. Assumersi il costo dei dazi da parte delle aziende del comparto determinerebbe un effetto inflazionistico con insostenibili aumenti dei prezzi dei medicinali per gli acquirenti finali (i governi) e seri rischi per l’accesso alle cure.
Tralasciando le elucubrazioni sul fatto che le tariffe imposte sui prodotti farmaceutici rappresentino o meno una violazione delle norme della World trade organization (che richiedono una disamina specifica) e tenuto conto delle implicazioni complessive, quella che viene definita come la guerra dei dazi dovrebbe portare a introiti da capogiro per l’erario stelle-e-strisce: 23 miliardi all’anno, secondo le stime.
Un obiettivo che vale una politica di semplificazione normativa come quella adottata, che promette di snellire gli iter approvativi per i nuovi stabilimenti accelerando il processo di reshoring, per evitare che, dati i tempi necessari per trasferire impianti e uffici di aziende tanto complesse, i risultati dei provvedimenti si palesino oltre il mandato presidenziale. Il 5 maggio scorso, il presidente Trump ha firmato un ordine esecutivo (Improving the safety and security of biological research) che impone a FDA di semplificare le procedure di revisione e di collaborare attivamente con i produttori nazionali. Oltre a ciò, la disposizione obbliga l’agenzia regolatoria a rafforzare i controlli sulla provenienza degli ingredienti attivi forniti dai produttori esteri e prendere in considerazione la pubblicazione di un elenco degli impianti non conformi.
Da Basilea con valore
L’operazione annunciata dalla big di Basilea è finalizzata a creare 12.000 nuovi posti di lavoro per raggiungere l’obiettivo finale di esportare dagli USA un volume di farmaci superiore a quelli importati. Roche parte, lo ricordiamo, già da un impegno di più di 25.000 dipendenti distribuiti in 24 siti e da un contesto di surplus di esportazione dagli USA verso l’estero, almeno per quanto riguarda la sua divisione Diagnostica.
Gli investimenti, che si dispiegheranno in un arco di tempo pari a cinque anni, saranno impiegati per la realizzazione e l’ampliamento di siti di ricerca e sviluppo di ultima generazione. In particolare, è stato annunciato il progetto di costruzione di un nuovo centro di produzione di farmaci per terapia genica in Pennsylvania, di un sito dedicato ai medicinali per la perdita di peso e di un centro in Massachussets che ospiterà ricerche sull’intelligenza artificiale. Con questa manovra, la company disporrà di ulteriori 13 siti produttivi e 15 di ricerca e sviluppo per le sue divisioni Farmaceutica e Diagnostica.
Malgrado le rassicurazioni del CEO Thomas Schinecker, il quale garantisce che dall’iniziativa trarranno benefici “pazienti degli Stati Uniti e in tutto il mondo”, sono tante le preoccupazioni che sorgono intorno a quello che sembra un inevitabile impoverimento della produzione pharma europea.
Un trend ormai definito
Già nei primi giorni di marzo avevano scatenato commenti e dibattiti le dichiarazioni del Ceo di Pfizer Robert Bourla che, nel corso della TD Cowen health care conference, appuntamento annuale del settore, ha ventilato l’ipotesi di trasferire il baricentro della produzione interna dell’azienda che guida nei suoi stabilimenti nazionali.
Il comunicato di Roche segue le dichiarazioni di diverse altre grandi realtà del panorama pharma, scatenate ad effetto domino dall’annuncio di dazi in arrivo anche per i beni di questo settore. Senza andare lontano, un’altra svizzera (Novartis) ha informato della volontà di investire 23 miliardi di dollari per la costruzione e l’espansione di 10 stabilimenti statunitensi.
Prima ancora, Eli Lilly ha lanciato il piano “Lilly in America” con il quale intende spendere 27 miliardi per costruire quattro nuovi impianti di produzione stars-and-stripes.
Cinquantacinque i miliardi che Johnson & Johnson destinerà alla realizzazione di tre nuovi impianti di produzione nel Paese che già ospita il suo headquarter.
Oltre ai 21 miliardi di dollari già annunciati, Gilead ha stanziato per le attività di reshoring 11 miliardi: cinque da impiegare per il potenziamento della tecnologia e delle attività dei siti di ricerca e sviluppo già presenti sul territorio, quattro da utilizzare per nuovi progetti infrastrutturali e i restanti due da destinare a iniziative digitali e di ingegneria avanzata. Totale: 800 nuovi posti di lavoro diretti e 2.200 indiretti nell’indotto.
In programma un impegno del valore di 10 miliardi di dollari per AbbVie, intenzionata a dare ossigeno al suo programma di crescita ed espansione in aree terapeutiche specifiche, come quella dell’obesità. Parte della cifra sarà stanziata per la costruzione di quattro nuovi impianti di produzione di principi attivi, prodotti farmaceutici, peptidi e dispositivi medici. Com’è noto, il prodotto più venduto della company di North Chicago, ovvero l’anticorpo monoclonale umanizzato indicato per il trattamento della psoriasi a placche risankizumab, è prodotto proprio negli Stati Uniti.
La newyorchese Doc Bristol Myers Squibb ha, dal canto suo, annunciato per i prossimi cinque anni un piano di investimenti da 40 miliardi di dollari per rafforzare la produzione e le attività di R&D sul territorio locale, con focus principale sull’incremento della produzione di radiofarmaci e sull’intensificazione della ricerca nel settore dell’intelligenza artificiale e dell’apprendimento automatico.
Reshoring e shortage: un’intima connessione
Mentre il mondo si interroga (non senza buone ragioni) sulle implicazioni etiche delle decisioni dell’amministrazione Trump, perdendone di vista gli aspetti di stretto pragmatismo, gli Stati Uniti si preparano a lanciare una nuova sfida. O meglio, a spostare l’ago della bilancia della produzione farmaceutica, che da est tenderà in un prossimo futuro a spostarsi a ovest, balzando l’Atlantico senza soste intermedie.
Sicurezza e affidabilità della catena del valore saranno sempre più a rischio, con conseguenze critiche sulla capacità dell’Unione europea di reale controllo sui processi di approvvigionamento e pricing. Sono di qualche settimana fa i risultati di una survey condotta dal PGEU (Pharmaceutical group of the European Union) nel periodo tra il 20 novembre 2024 e il 24 gennaio 2025, in occasione del quale tutti i 28 Paesi europei hanno segnalato carenze di medicinali. Le cause principali identificate (interruzione o sospensione della produzione – 68%, politiche nazionali di determinazione dei prezzi e di approvvigionamento – 54%, aumento inaspettato della domanda di medicinali – 50%) non promettono di migliorare a seguito dei recenti avvenimenti internazionali. Le carenze di farmaci in UE continueranno a rappresentare una sfida crescente per i sistemi sanitari nazionali e per i pazienti.
Non dimentichiamo anche le ripercussioni in termini di networking e sinergie, aspetti non proprio trascurabili quando si parla di ricerca scientifica: lo sfaldamento della produzione interna porta inevitabilmente alla progressiva perdita di contatto fra attività di manufacturing e di ricerca. Per non parlare del venir meno dello stimolo all’economia locale, alla creazione di posti di lavoro e alla promozione dello sviluppo di competenze avanzate specifiche. L’evoluzione di questo contesto rischia di penalizzare qualsiasi altra iniziativa improntata all’innovazione e alla crescita economica, disposta nel settore.
Iniziative europee cercasi
Intanto, la ministra della salute olandese Fleur Agema ha tentato di ridimensionare le preoccupazioni sostenendo che l’introduzione di dazi non porterà, almeno nel breve termine, ad un esodo della produzione farmaceutica dall’UE. La ministra ha precisato che le decisioni sugli investimenti rientrano in una pianificazione di lungo periodo e sono influenzate da molti fattori, fra cui le attività di ricerca e sviluppo già avviate, le competenze disponibili, la forza lavoro, la politica fiscale e la stabilità politica. In risposta, tuttavia, l’Associazione dei medicinali innovativi olandese (Vig) ha chiesto al governo di modificare la propria posizione sulla riforma della legislazione farmaceutica dell’UE.
I tentativi di rassicurazione hanno incontrato anche lo scetticismo delle banche. Secondo la multinazionale ING, sussiste il rischio che la produzione di medicinali di marca si sposti dall’Europa agli USA e che i prezzi dei generici in UE diminuiscano, riducendo l’incentivo a riportarne la produzione al di qua dell’oceano. Ragion per cui, la Commissione europea dovrebbe proteggere il settore farmaceutico europeo e la sua capacità produttiva, promuovendo anche il reshoring della produzione di farmaci generici critici. Come a dire: la risposta ai dazi USA deve assumere un respiro europeo.