Nel mondo dei dispositivi medici, la parola “innovazione” sembra ormai scontrarsi con una burocrazia tanto ambiziosa quanto impacciata. È quanto emerso con chiarezza durante la X sessione del Simposio AFI 2025, dedicata a un tema solo apparentemente tecnico: “Innovazione e utilizzo delle nuove tecnologie per i Dispositivi Medici a base di sostanze in ambito MDR“. Una sessione che ha approfondito le implicazioni del Regolamento Europeo 2017/745 (MDR), oggi percepito più come un freno che come un propulsore.
A portare una delle prove a sostegno della complessità dell’iter, è stata Antonella Mamoli (IBSA), con la cronistoria dettagliata di un’esperienza concreta: la certificazione MDR di un dispositivo medico innovativo secondo l’Articolo 54, con attivazione della Clinical Evaluation Consultation Procedure (CECP). Il verdetto è impietoso: tre anni per ottenere il marchio CE, di cui oltre un anno solo per ricevere la cosiddetta “CECP Opinion” da parte del panel di esperti della Commissione Europea.
Nel mondo reale, dove i cicli di vita tecnologici si misurano in mesi, e dove la competizione è globale, tre anni sono un’eternità. L’opinione scientifica CECP – teoricamente uno strumento di garanzia – rischia di diventare un ostacolo strutturale all’accesso al mercato. Come ha sintetizzato Mamoli: “Se un DM innovativo impiega tre anni ad accedere al mercato, allora abbiamo un problema sistemico.”
L’incertezza come regola
A rafforzare questa sensazione è arrivata Sveva Sanzone (Biogen), che ha descritto le complessità del processo regolatorio per i dispositivi integrati nei medicinali (iDDC). Il parere dell’Organismo Notificato (NBOp) è richiesto non solo all’inizio del ciclo, ma ogni volta che si introducono modifiche “sostanziali” – un concetto sfuggente, che può includere una diversa popolazione target, un nuovo ambiente d’uso, o persino una variazione nella viscosità del prodotto che impatti sulle performance del dispositivo.
A peggiorare il quadro, l’assenza di linee guida chiare: un vero caos epistemico, dove ogni documento è un’interpretazione e ogni interpretazione può essere rimessa in discussione. La Commissione Europea non ha ancora armonizzato i criteri, lasciando le aziende sospese in un limbo fatto di incertezze e revisioni iterative. “>1000 pagine di dossier con link ipertestuali”, recita una slide, quasi a evocare il labirinto kafkiano in cui si muove il settore.
Ecologia dei dati: il paziente come algoritmo
Un altro tema caldo è quello della raccolta del dato clinico. Lorenzo Cottini (Evidenze) ha portato un’analisi lucida delle strategie adottate per raccogliere Real World Evidence (RWE) e dati clinici retrospettivi, fondamentali per la certificazione di dispositivi già sul mercato (legacy device). L’adozione degli “studi ecologici” – che utilizzano dati aggregati forniti da operatori sanitari senza contatto diretto con i pazienti – è una risposta pragmatica alle barriere regolatorie. Ma pone interrogativi profondi sulla qualità scientifica del dato e sul ruolo del paziente nel processo di valutazione.
Nell’esperienza presentata, lo studio su farmacisti e farmacie territoriali è stato completato in soli 4 mesi, senza bisogno di autorizzazione ministeriale. Ma a che prezzo? Il rischio è quello di creare evidenza clinica svuotata della dimensione individuale, utile per la compliance ma sterile per la scienza.
Intelligenza artificiale, tra rischio regolatorio e opportunità clinica
Chiude il cerchio Tiziana Pecora (AFI), con un intervento dedicato all’intelligenza artificiale nei dispositivi medici a base di sostanza. La distinzione tra IA predittiva e IA generativa – oggi abusata nei discorsi di marketing – assume invece qui una valenza regolatoria cruciale.
I modelli predittivi come QSAR o PBPK sono già parzialmente accettati, perché basati su logiche matematiche e statistiche esplicabili. Tutt’altro discorso per l’IA generativa che, al momento, è difficilmente integrabile nei processi regolatori. Non è solo una questione di accuratezza, ma di tracciabilità e responsabilità: “L’IA generativa può produrre testi coerenti ma inventare fonti o dati – una caratteristica inaccettabile in ambito clinico-regolatorio”, ha ribadito Pecora.
La conclusione implicita è che, anche qui, l’innovazione va più veloce del sistema che dovrebbe regolarla. E l’assenza di standard condivisi lascia alle aziende il compito – e il rischio – di fare da pioniere senza mappa.
Quale competitività?
L’intento dichiarato della sessione era quello di “rafforzare la competitività dell’industria della salute”. Ma la parola competitività è rimasta un’eco lontana, quasi ironica, nel racconto di un sistema che sembra più votato alla cautela che al progresso. Dalla CECP Opinion ai pareri degli Organismi Notificati, dagli studi ecologici all’IA non validabile, la sensazione è quella di una macchina che gira a vuoto.
L’interrogativo posto in conclusione è più di un auspicio: “Come possiamo migliorare i tempi della procedura?”. La risposta non è semplice, ma passa da un’assunzione di responsabilità collettiva: armonizzare i criteri, accelerare i tempi, rendere trasparente ciò che oggi è opaco. In gioco non c’è solo il futuro dell’industria, ma l’accesso stesso dei cittadini europei all’innovazione sanitaria.