La sostenibilità come nuova frontiera competitiva della filiera europea

La sostenibilità ambientale non è più un tema reputazionale per l’industria farmaceutica, ma una leva industriale destinata a incidere su costi, capacità produttiva, accesso ai mercati e attrattività degli investimenti. Eppure la filiera europea misura ancora in modo frammentario il proprio impatto reale. Energia, acqua, rifiuti, packaging e supply chain restano in gran parte fuori da un sistema condiviso di valutazione. Un vuoto che rischia di trasformarsi in un nuovo svantaggio competitivo globale.

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La farmaceutica è, per definizione, il settore della misura. Tutto è tracciato, validato, controllato, certificato. Ogni processo produttivo è sottoposto a una catena di verifiche che non ha eguali in altri comparti industriali. Eppure esiste un ambito in cui questa cultura della misurazione si interrompe bruscamente: l’impatto ambientale complessivo della filiera.

La sostenibilità è entrata stabilmente nei report annuali delle aziende, nei piani ESG, nelle presentazioni agli investitori. Ma quando si prova a trasformare questa narrazione in numeri confrontabili, emergono più interrogativi che certezze. Non è solo un problema di trasparenza. È un problema strutturale di assenza di metriche condivise in un settore che, paradossalmente, vive di metriche.

Questo vuoto non è più neutrale. Sta diventando un fattore che incide direttamente sulla competitività dell’industria farmaceutica europea.

Un settore ad alta intensità nascosta

Nell’immaginario collettivo, il farmaco è un oggetto leggero: una compressa, una fiala, una siringa. Dietro quella leggerezza finale, però, si muove una delle infrastrutture industriali più complesse ed energivore del sistema produttivo mondiale.

Le cleanroom non possono fermarsi. I flussi d’aria devono essere costanti, filtrati, monitorati. I reattori biologici lavorano in equilibrio instabile tra sterilità, temperatura e pressione. Le catene del freddo accompagnano il prodotto per migliaia di chilometri, senza interruzioni. L’acqua farmaceutica non è una risorsa che si preleva: è una sostanza che si costruisce, con processi che richiedono energia continua, distillazione, sanificazione, controlli microbiologici permanenti.

E poi c’è ciò che resta: materiali monouso, filtri, reagenti, residui biologici, packaging multistrato. Tutto necessario per garantire la sicurezza del paziente, ma tutto difficile da ricondurre a un modello lineare di economia circolare.

Questa infrastruttura invisibile è ciò che rende la farmaceutica un’industria ad altissima intensità energetica e ambientale, pur producendo oggetti piccoli, leggeri, apparentemente “puliti”. È una contraddizione che il settore sta iniziando solo ora ad affrontare apertamente.

Il vero punto cieco: la filiera globale

Se la produzione diretta è già difficile da misurare, il vero buco nero della sostenibilità farmaceutica è la filiera estesa. La maggior parte dell’impatto ambientale non nasce nelle sedi centrali delle big pharma, ma lungo una rete globale fatta di:

  • produttori di principi attivi,
  • CDMO specializzate,
  • fornitori di materiali di processo,
  • aziende di logistica multi-temperatura,
  • produttori di packaging complesso,
  • siti di smaltimento e trattamento rifiuti.

Qui si concentra la parte più consistente delle emissioni e dei consumi di risorse. Ed è anche qui che la capacità di controllo delle aziende committenti si indebolisce. I cosiddetti scope 3, nella farmaceutica, non sono una variabile marginale: rappresentano spesso la quota dominante dell’impatto complessivo. Ma vengono stimati con modelli indiretti, approssimazioni, coefficienti medi. Difficilmente con dati reali.

Questo significa che l’Europa, oggi, non ha un quadro affidabile dell’impronta ambientale della propria catena del farmaco. E senza misura non esiste governo industriale.

Perché la sostenibilità sta diventando un fattore di competizione

Per anni la sostenibilità è stata trattata come un tema valoriale. Importante, certo, ma separato dalle logiche core del business. Questa separazione sta rapidamente saltando.

I costi energetici sono diventati una variabile strutturale, non più ciclica. La volatilità geopolitica ha trasformato la sicurezza degli approvvigionamenti in un tema strategico. Le politiche europee stanno collegando sempre più chiaramente ambiente, industria e mercato.

In questo contesto, la capacità di produrre in modo efficiente dal punto di vista energetico, di ridurre gli sprechi lungo la filiera, di progettare impianti e processi meno dipendenti da input critici non è più un valore etico: è un vantaggio competitivo diretto. Incide sui costi, sulla continuità produttiva, sulla capacità di garantire forniture stabili, sull’attrattività per gli investitori.

Le aziende che non riescono a controllare la propria impronta ambientale rischiano di diventare, nel medio periodo, le aziende meno resilienti.

Un’Europa che parla di Green Deal ma misura in modo frammentato

Il Green Deal europeo ha posto obiettivi ambiziosi. Ma la filiera farmaceutica non dispone ancora di uno strumento tecnico equivalente a quelli che regolano qualità, sicurezza ed efficacia. Non esiste una “ICH della sostenibilità” del farmaco. Non esistono soglie operative condivise per misurare l’impatto per batch, per linea, per singolo principio attivo.

Il risultato è una mappa disomogenea. Ogni azienda utilizza modelli propri, ogni investitore confronta dati costruiti su basi diverse, ogni Paese applica criteri interpretativi differenti. Questo rende la sostenibilità non confrontabile, e quindi poco governabile come variabile industriale.

Nel frattempo, altri sistemi — Stati Uniti e Asia in primis — stanno iniziando a integrare con maggiore decisione sostenibilità, automazione, efficienza energetica e controllo dei costi in un unico paradigma produttivo.

Green Deal

Il rischio strategico per l’industria europea

Se l’Europa non riuscirà a trasformare la sostenibilità in una competenza tecnica misurabile, rischia di posizionarla come un vincolo, non come una leva. E qui si apre un rischio competitivo concreto.

Un impianto energivoro in un contesto di energia costosa diventa meno attrattivo per nuove produzioni. Una filiera poco efficiente dal punto di vista ambientale diventa più vulnerabile agli shock logistici. Un sistema che non sa misurare i propri impatti diventa meno credibile per gli investitori globali.

Nel lungo periodo, questo può tradursi in uno spostamento progressivo delle produzioni più avanzate verso ecosistemi industriali dove sostenibilità, efficienza energetica e automazione sono già integrate nella progettazione degli impianti.

Dalla narrazione alla capacità industriale

La vera sfida del Green Pharma non è comunicativa. È ingegneristica, regolatoria, finanziaria. Trasformare la sostenibilità in una capacità strutturale della filiera richiede:

  • nuovi standard tecnici condivisi,
  • piattaforme di scambio dati lungo la supply chain,
  • incentivi agli investimenti in efficienza energetica,
  • una progettazione degli impianti che nasca già “green by design”.

Soprattutto, richiede un cambio di prospettiva: la sostenibilità non come costo accessorio, ma come parametro di qualità industriale al pari della GMP.

La prossima frontiera della leadership farmaceutica

Per decenni la leadership farmaceutica europea si è fondata su scienza, regolazione e qualità produttiva. Oggi questi tre pilastri non bastano più. La quarta dimensione è diventata inevitabile: la sostenibilità come fattore di resilienza e competitività.

Il Green Pharma non si gioca nei report patinati, ma negli impianti, nei bioreattori, nelle filiere di approvvigionamento, nei sistemi energetici, nella capacità di governare ciò che oggi resta invisibile. L’industria europea ha le competenze per farlo. Ma deve decidere se la sostenibilità resterà un racconto o diventerà una nuova infrastruttura del proprio futuro industriale.

Perché, nel prossimo decennio, non sarà “più verde” l’azienda che comunica meglio.
Sarà più forte quella che saprà misurare, investire e produrre meglio.