La molecola al centro dell’operazione di acquisto di Anthos Therapeutics da parte di Novartis è abelacimab, anticoagulante sperimentale nato originariamente nei laboratori Novartis. Successivamente ceduta, la molecola è passata sotto l’egida di Anthos Therapeutics, biotech creata nel 2019 con il sostegno del colosso finanziario Blackstone, che ha investito 250 milioni di dollari per sviluppare il farmaco.
Blackstone, Novartis e l’evoluzione della value chain farmaceutica
L’operazione evidenzia due aspetti chiave: da un lato, il crescente potere dei fondi di private equity, che da semplice fonte di finanziamento si sono trasformati in veri e propri costruttori di valore biotech e, dall’altro, la progressiva tendenza delle big pharma a riacquistare asset che avevano precedentemente ceduto, al fine di recuperare molecole validate dai trial clinici e pronte per il mercato.
Il caso abelacimab è paradigmatico: Novartis, dopo aver ceduto la molecola, oggi la riporta “a casa” per un esborso iniziale di 925 milioni di dollari, con potenziali pagamenti successivi fino a 5,1 miliardi. «Abelacimab ha il potenziale per essere una terapia di prima classe nella prevenzione degli eventi tromboembolici», ha dichiarato David Soergel, responsabile della divisione cardiovascolare di Novartis. Bill Meury, CEO di Anthos, ha aggiunto: «Potrebbe diventare un’opzione cruciale per milioni di pazienti a rischio di ictus».
Questi accordi, che un tempo avrebbero potuto essere etichettati come operazioni difensive, oggi rientrano in una strategia consolidata. Riacquistare farmaci in fase avanzata significa accorciare i tempi di market entry e ridurre i rischi legati allo sviluppo ex novo. Tuttavia, il prezzo di questa sicurezza è elevato.
L’ondata finanziaria. Quando il biotech diventa asset class
Il caso Blackstone-Anthos rientra in un fenomeno più ampio. I fondi di private equity e venture capital non si limitano più a sostenere start-up nelle fasi embrionali, ma puntano a creare piattaforme biotech pronte per essere cedute alle multinazionali. Nel 2024, secondo Evaluate Pharma, gli investimenti dei fondi nel settore farmaceutico hanno superato i 20 miliardi di dollari.
Blackstone non è sola: Carlyle, KKR, Bain Capital stanno adottando strategie simili. «I fondi hanno capito che la biotecnologia non è solo innovazione scientifica, ma anche un asset finanziario ad alto rendimento se gestito correttamente», spiega un report di McKinsey & Company dedicato all’Healthcare Private Equity del 2024.
Strategia lungimirante o rincorsa al deal?
La mossa di Novartis si inserisce in un contesto in cui i big player del pharma si trovano a bilanciare la necessità di innovare con quella di garantire ritorni certi agli investitori. Riacquisire una molecola già vicina alla commercializzazione è spesso percepito come il male minore rispetto all’incertezza dei laboratori. Tuttavia, il costo di queste operazioni porta con sé il rischio di una crescente finanziarizzazione del settore, con valutazioni sempre più gonfiate e il pericolo di una bolla speculativa biotech, come sottolineato in un’analisi di Bloomberg del dicembre 2024.
Il rischio per i C-level delle pharma è quello di farsi trascinare nella logica della FOMO finanziaria (Fear of Missing Out), temendo di perdere asset chiave per restare competitivi.
Verso una nuova alleanza finanza-farmaceutica?
L’operazione Novartis-Anthos potrebbe rappresentare un nuovo paradigma, in cui la collaborazione tra big pharma e fondi diventa strutturale. Se da un lato ciò consente di accelerare l’accesso a terapie innovative, dall’altro obbliga i vertici aziendali a ripensare i propri modelli di sviluppo: saranno ancora i laboratori interni il cuore dell’innovazione, o il futuro del pharma passerà sempre più per i deal finanziari?
La risposta non è scontata, ma la direzione sembra segnata. In un mercato dove il valore si costruisce non solo sui brevetti, ma anche sulla capacità di leggere i segnali finanziari, il confine tra scienza e capitale appare sempre più sottile.