Farmaci e futuro. Perché l’industria chiede più risorse e meno payback

Dal 2026 le aziende farmaceutiche spingono per un aumento dell’1% della spesa pubblica e per una revisione del meccanismo di payback. L’obiettivo dichiarato è sostenere la ricerca e garantire l’accesso alle nuove terapie, ma dietro la richiesta si gioca una partita più profonda: quella sulla capacità del sistema sanitario di rimanere competitivo in un contesto terapeutico radicalmente cambiato.

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Ci sono cifre che raccontano più di tante analisi. Quando nel 2012 furono fissati i tetti di spesa farmaceutica pubblica – il 7% del Fondo sanitario nazionale per i farmaci territoriali e l’8% per quelli ospedalieri – la pipeline di farmaci biologici era ancora limitata, le terapie avanzate muovevano i primi passi e il concetto stesso di medicina personalizzata era poco più che una prospettiva.

Oggi la situazione è completamente diversa. Le terapie geniche, i farmaci a bersaglio molecolare, gli anticorpi bispecifici e le piattaforme RNA hanno moltiplicato l’efficacia dei trattamenti ma anche i costi, spesso superiori di un ordine di grandezza rispetto a quelli delle molecole tradizionali. Di fronte a questa trasformazione, un sistema di finanziamento disegnato oltre un decennio fa inizia a mostrare tutti i suoi limiti.

È in questo contesto che l’industria, attraverso le associazioni di categoria, ha avanzato una richiesta precisa: a partire dal 2026, aumentare di almeno l’1% la quota di spesa farmaceutica pubblica. Non un dettaglio contabile, sostengono le imprese, ma un adeguamento strutturale necessario a evitare che l’Italia diventi un mercato marginale per l’innovazione terapeutica.

Innovazione e competitività: le ragioni dell’industria

La logica della proposta è semplice: senza risorse adeguate, l’innovazione rischia di non arrivare ai pazienti. I numeri della R&S farmaceutica sono impietosi: sviluppare un nuovo farmaco richiede in media oltre 10 anni di lavoro e investimenti che superano i due miliardi di dollari. Se il mercato non offre prospettive di ritorno adeguate, le aziende hanno due opzioni: ritardare l’introduzione delle nuove terapie o non introdurle affatto.

L’Italia sconta già un gap rispetto ad altri Paesi europei: il tempo medio di accesso ai nuovi farmaci dopo l’approvazione europea è superiore a quello di Germania e Francia, e la disponibilità di alcune terapie avanzate è più limitata. Secondo l’industria, senza un adeguamento delle soglie di spesa, questo divario è destinato ad ampliarsi.

L’aumento dell’1% non servirebbe soltanto a “pagare” farmaci più costosi, ma a sostenere l’intera filiera dell’innovazione: dalla ricerca clinica alle infrastrutture ospedaliere, fino ai sistemi di monitoraggio dei real-world data, sempre più centrali nei processi di rimborso e valutazione.

Il nodo del payback: da strumento di controllo a tassa sull’innovazione

Ma la richiesta dell’industria non si limita all’aumento delle risorse. Al centro del confronto c’è un altro tema, ben più controverso: il payback farmaceutico.

Il meccanismo è noto: se la spesa supera i tetti fissati dalla legge, le aziende devono rimborsare alle Regioni e al Ministero parte dell’eccedenza, in proporzione alla propria quota di mercato. Nelle intenzioni originarie, il payback era uno strumento di responsabilizzazione condivisa tra pubblico e privato. Negli anni, però, si è trasformato in una voce di costo rilevante e imprevedibile, capace di erodere in modo significativo i margini delle imprese.

In alcuni casi, il payback può ridurre del 30-40% i ricavi di determinati segmenti di mercato, colpendo proprio le aziende più impegnate nello sviluppo di terapie innovative. Per questo, le associazioni di categoria chiedono non solo di contenere l’aumento della spesa pubblica, ma anche di riportare il payback ai livelli del 2023, rendendolo più prevedibile e sostenibile.

L’altra faccia della medaglia: sostenibilità ed equità

Se l’argomentazione industriale appare solida dal punto di vista economico, le istituzioni e alcune associazioni di cittadini sollevano però obiezioni non banali. La prima riguarda la sostenibilità del sistema.

Il Fondo sanitario nazionale è sottoposto a pressioni crescenti: invecchiamento della popolazione, aumento delle cronicità, inflazione sanitaria, carenza di personale. In questo contesto, destinare un punto percentuale in più alla spesa farmaceutica significherebbe sottrarre risorse ad altri capitoli fondamentali – dalla medicina territoriale alla prevenzione – o aumentare la spesa complessiva, con inevitabili ricadute sui conti pubblici.

C’è poi un tema di equità. Il rischio è che concentrare risorse sui farmaci più costosi – spesso rivolti a popolazioni ristrette – possa ridurre la capacità del sistema di garantire prestazioni di base diffuse e universali. Alcuni osservatori temono che, dietro la retorica dell’innovazione, si celi un progressivo spostamento di risorse pubbliche verso segmenti di mercato ad alta redditività.

Accesso e valore: il vero nodo del futuro

Al di là della contrapposizione tra industria e istituzioni, la questione centrale è come valutare e finanziare l’innovazione. Il modello attuale, basato su tetti fissi e payback, è uno strumento grezzo, che misura solo la quantità di spesa e non il valore terapeutico o sociale dei trattamenti.

Un nuovo paradigma dovrebbe spostare l’attenzione dal prezzo al valore: quanto migliora la sopravvivenza? Quanto riduce i ricoveri? Quanta spesa evita in altri settori del sistema sanitario? Rispondere a queste domande con dati solidi – compresi quelli provenienti dal mondo reale – potrebbe consentire una distribuzione più razionale delle risorse e una maggiore accettabilità sociale dell’aumento della spesa.

In questo senso, anche l’industria è chiamata a fare un passo avanti: maggiore trasparenza sui costi di sviluppo, modelli di pricing più legati agli outcome, accordi di rimborso condizionati e investimenti in sistemi di raccolta dati sono elementi imprescindibili per costruire un nuovo patto pubblico-privato.

Verso un nuovo equilibrio

La richiesta di aumentare l’1% della spesa farmaceutica e di ridurre il peso del payback è, in definitiva, il sintomo di un sistema che non riesce più a stare al passo con l’innovazione. Non è solo una questione di soldi, ma di modelli, regole e priorità.

L’Italia si trova di fronte a un bivio: continuare a gestire l’innovazione con strumenti pensati per un’epoca diversa, rischiando di perdere competitività e accesso, oppure ripensare l’intero sistema di governance della spesa farmaceutica, trovando un punto di equilibrio tra sostenibilità ed evoluzione scientifica.

Il dibattito è aperto e, al di là delle contrapposizioni retoriche, sarà decisivo per definire il ruolo del Paese nel mercato europeo del farmaco. Perché la vera posta in gioco non è l’1% in più o in meno, ma la capacità del sistema sanitario di garantire ai cittadini le terapie di domani senza sacrificare l’equità e la tenuta dei conti pubblici.