La comunicazione è un aspetto imprescindibile della vita. Tutti comunichiamo, lo facciamo nel quotidiano come nell’attività professionale: con parole e silenzi apriamo e chiudiamo prospettive, creiamo consenso intorno a noi, diventiamo riferimento per le persone che ci circondano.
Lo studio dei fenomeni legati all’hate speech, le ripercussioni che le fake news hanno avuto (e continuano ad avere) sulla nostra vita sociale, sul destino di tutti noi hanno dimostrato che lo scambio, a qualsiasi livello, può generare circoli virtuosi che si autoalimentano oppure dare inizio a pericolose spirali di irrazionalità.
Abbiamo avuto conferma del fatto che la comunicazione è uno strumento potente e affidabile, che siamo chiamati a gestire con prudenza e responsabilità e che può contribuire alla costruzione di una realtà migliore, anche e soprattutto in ambito sanitario.
Ma guardando al futuro, quali sono i canali attraverso i quali l’industria farmaceutica dialogherà con il proprio pubblico e quali le modalità?
Ne ho parlato con Gianluca Comin, presidente e fondatore della società di consulenza nel settore comunicazione, relazioni con i media e public affairs Comin & Partners e docente di comunicazione e tecniche di pubblicità all’Università Luiss Guido Carli di Roma.
Lei ha spesso sottolineato che il marketing è il risultato di tutti i comportamenti dell’azienda, sia in ambito tecnico che relazionale. In ambito comunicativo, quanto è importante ascoltare la propria audience?
Due anni e più di pandemia hanno certamente lasciato il segno. Il consumatore ancor più di prima cerca non solo un prodotto buono a un prezzo giusto, ma anche di identificarsi nei valori dell’azienda che lo propone. Ed è per questo che risulta sempre più importante riempire di contenuti, anche etici, il proprio brand e promuovere una comunicazione sempre più mirata alla diffusione dei propri valori.
Questo rapporto tra azienda e consumatore non è a una via, ma implica la capacità prima di identificare chi sono i nostri interlocutori, e poi di attivare un’azione bidirezionale, secondo una sequenza “parlo-provoco una reazione-ascolto-monitoro”.
I sistemi di ascolto sono molto diffusi e variegati: dalla lettura e monitoraggio delle conversazioni online (sui social media, per esempio), all’organizzazione di discussioni in forma di focus group, all’analisi delle e-mail ricevute dall’azienda.
Ma la capacità di capire e ascoltare i nostri interlocutori, stakeholder, clienti o altro è fondamentale per misurare il messaggio e vestirlo di quei valori e di quei contenuti che rafforzano l’azienda nella vendita del suo prodotto.
La comunicazione nel farmaceutico è limitata da numerosi vincoli regolatori: questo può rappresentare il punto di partenza per costruire una comunicazione distintiva del settore?
Partiamo da una premessa: il settore farmaceutico, come quello petrolchimico e, per certi versi, quello dell’energia, parte con un handicap reputazionale. Nella consapevolezza delle proprie comunità, tutti questi settori hanno un’immagine più negativa di altri.
Le industrie delle rinnovabili, dell’automobile o della tecnologia, tanto per citare qualche esempio, non hanno questo handicap. Poi ci sono i vincoli, che sono peraltro presenti anche in altri mercati (uno su tutti quello finanziario) e che impongono alcune regole nella comunicazione.
Ora, non dobbiamo guardare alla pubblicità come unico aspetto della comunicazione aziendale. Certamente in questo campo i vincoli sono enormi, addirittura vietano in alcuni casi la comunicazione pubblicitaria.
Ma dobbiamo parlare in senso più ampio di comunicazione verso i nostri stakeholder, un ambito nel quale si possono applicare molte altre metodologie. Ad esempio, possono essere coinvolte le associazioni dei pazienti, le attività di Corporate social responsibility, quelle legate ai meccanismi ESG.
Quindi, certamente la regolamentazione rappresenta un vincolo, certamente il gap reputazionale del farmaceutico è un altro limite, ma la molteplicità delle iniziative a cui le aziende possono ricorrere (e a cui molte di esse ricorrono) è ampia e può essere ricompresa in quel mestiere che noi comunicatori definiamo di advocacy, cioè la capacità di far accogliere ai nostri stakeholder le nostre istanze come fossero le loro. E questa nel settore farmaceutico è già una pratica più che sperimentata.
L’industria farmaceutica ha contribuito in maniera significativa ad affrontare la crisi Covid-19: ritiene che questo possa avere nutrito un sentimento di nuova fiducia nei cittadini?
La pandemia ha restituito centralità alla comunicazione scientifica. Io ho vissuto da vicino, in passato, l’esperienza del settore energetico (Comin è stato executive vice president relazioni esterne di Enel dal 2002 al 2014, NdR), nel quale la scienza veniva spesso condizionata da tendenze populiste e antiscientifiche che negavano l’evidenza scientifica dei fenomeni.
Questo si è ripetuto nel mondo della salute: pensiamo al ruolo di quella che io definisco “ipocondria digitale”, ossia il fatto che le persone attingono alle informazioni che trovano in internet digitando il nome della malattia che sono convinte di avere e pensano di avere trovato in questo modo la verità assoluta.
La pandemia ha rimesso gli scienziati al centro e restituito un ruolo più significativo alla scienza e alla comunicazione scientifica. Tutto questo si è riverberato anche sul ruolo delle farmaceutiche, che avrebbero potuto sfruttare di più e meglio questo momento.
È difficile comprendere questa scelta. A mio avviso, potrebbe essere subentrata un po’ di timidezza, paura per le polemiche che divampavano sull’uso dei vaccini, forse la convinzione che una maggiore partecipazione alla vita pubblica avrebbe potuto essere interpretata in relazione ai soli interessi economici.
Il mio parere è che abbiano sprecato una grande occasione, quella di assumere un ruolo guida nella società e contribuire alla soluzione della crisi non solo con la fornitura e la distribuzione dei vaccini, che sono state fondamentali, ma anche con un’informazione che avrebbe potuto essere più completa e che è stata invece delegata completamente agli scienziati, gli unici a partecipare ai programmi televisivi più seguiti.
Come si spiega che neppure i vertici di queste società abbiano voluto portare la loro esperienza nei consessi pubblici?
Anche i top manager sono stati poco presenti e, in ogni caso, anche nelle rare occasioni in cui sono intervenuti in qualche trasmissione, il loro atteggiamento era sempre di difesa, mai propositivo. Invece, avrebbe potuto essere una grande occasione anche per incarnare il ruolo nuovo proposto dal Ceo activism, quello di un Ceo che interviene nelle questioni che riguardano la società, al pari delle istituzioni.
Vede, con la crisi della rappresentanza politica e istituzionale il ruolo delle corporation è diventato sempre più importante.
Le aziende godono di maggior fiducia da parte dell’opinione pubblica rispetto a governi e istituzioni (vedi rapporto Edelman) ma questo è anche un carico di responsabilità nel definire le policy ed esercitare influenza sui decision maker.
Lungo quali direttrici dovrebbe riorganizzarsi l’industria farmaceutica dopo la terribile tempesta della pandemia?
Credo che, se c’è un punto che la pandemia ha evidenziato in maniera anche drammatica, è che il cittadino aveva ormai perso il contatto diretto con il proprio medico di base, con la medicina di prossimità.
Ci siamo trovati di fronte a questa forte contraddizione fra una medicina spiegata su internet al pari di qualsiasi altra attività – ma molto più pericolosa se lasciata all’iniziativa del singolo individuo – e l’assenza di un contatto diretto, vicino al paziente che lo potesse orientare nella cura. Io credo che uno degli insegnamenti che ci ha portato la pandemia sia proprio questo: le persone hanno bisogno di contatto da un lato e di riferimenti credibili dall’altro.
Benché questa proposta possa essere forse più mirata alle aziende ospedaliere, le ASL e i medici di base, possiamo declinarla anche per le aziende. Se l’industria riuscisse ad aumentare la sua credibilità nel rapporto one to one con il cittadino, certamente alla prossima emergenza ci troveremmo molto meglio.
In questo quadro, le aziende farmaceutiche possono avere un ruolo? Certamente sì: hanno la forza di far sentire la loro voce e di entrare in sintonia ed empatia con il cittadino. Non deve essere, però, un messaggio calato dall’alto, ma una comunicazione orizzontale, che arrivi direttamente alle persone e accorci le distanze.
Possiamo dire che la farmacia ha contribuito in maniera più incisiva a non lasciare soli i pazienti?
Assolutamente sì. I cittadini hanno trovato più vicinanza nelle farmacie che presso il loro medico di base. Questa è l’esperienza che ciascuno di noi ha avuto. Il medico spesso aveva paura a incontrare il paziente, temeva il contagio, mentre il farmacista era sempre lì, pronto a dispensare consigli.
È stata una grande opportunità per le catene farmaceutiche: io lavoro per Hippocrates e Boots e la mia esperienza è che entrambe (ma anche gli altri gruppi) abbiano compiuto un grande sforzo nel farsi carico anche di parte delle responsabilità dei medici.
Forse questa è un’altra strada: quella di trasferire in farmacia una parte della medicina di prevenzione, in modo che i cittadini possano trovarla sotto casa, e che possa rappresentare uno strumento di supporto anche nell’ottica del raggiungimento di una maggiore sostenibilità economica della cura.
Come possiamo impostare un dialogo più maturo con il pubblico per aumentarne il coinvolgimento?
Questo è un punto importante, che vale un po’ per tutti i settori, non solo per il farmaceutico: la sintonizzazione sul linguaggio più opportuno per farsi comprendere dai propri stakeholder è fondamentale. Si dedica poco tempo a questo: spesso le aziende pensano più agli strumenti che ai contenuti.
Ad esempio, quando si progetta una campagna social bisognerebbe avere ben chiaro il messaggio che si vuole lanciare, a chi è rivolto e, poi, come lo distribuisco. Io credo che oggi ci sia molto spazio per i comunicatori e per le figure professionali inquadrate nelle aziende, nella direzione del rafforzamento degli aspetti relativi al linguaggio, al tono di voce e alle immagini da utilizzare nel dialogo con i propri interlocutori.
Considerando che non esiste mai un solo cluster di individui, ma esistono diverse tipologie di persone, abituate a interpretare il linguaggio in maniera diversa, dovremmo arrivare a studiare una comunicazione quasi one-to-one.
Dall’altro lato, i social hanno portato le persone a essere protagoniste dell’informazione, a fare loro stesse informazione. E spesso ad avere anche una audience più vasta delle aziende stesse. Diventa quindi urgente saper reclutare i soggetti che oggi definiamo “influencer” e farne dei propri testimonial.
[…] Accorciare le distanze con una comunicazione diretta e orizzontale […]
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