Il 2 aprile 2025 si è tenuto a Roma, presso l’Auditorium della Conciliazione, il convegno “Ricerca e Futuro – Il contributo dell’industria farmaceutica per la salute di domani“, organizzato da Farmindustria con il patrocinio del Ministero dell’Università e della Ricerca. L’evento ha visto la partecipazione di figure di spicco del settore, tra cui il presidente di Farmindustria, Marcello Cattani, e la ministra dell’Università Anna Maria Bernini.
Le discussioni si sono focalizzate sull’importanza della ricerca e dell’innovazione per la competitività dell’Italia nel settore farmaceutico. In particolare, è stato sottolineato come l’intelligenza artificiale stia trasformando i sistemi di ricerca e come sia fondamentale investire nel capitale umano per affrontare le sfide future. Durante il convegno, Cattani ha evidenziato che l’industria farmaceutica italiana investe annualmente circa 4 miliardi di euro in ricerca e sviluppo, con quasi 1.000 studi clinici attivi. Ha inoltre sottolineato l’importanza dell’innovazione come leva per la crescita del paese, sia in termini economici che di salute pubblica.
L’allarme sull’ipotesi di dazi USA
“Se dovessero esserci i dazi sui farmaci, sarà una sconfitta innanzitutto per gli Stati Uniti. Ci sarà una possibile carenza di medicinali, un aumento dei costi e, soprattutto, un effetto domino che sposterà gli investimenti in ricerca e innovazione in Cina. E non crediamo che questo sia interesse degli Stati Uniti”. Così Marcello Cattani ha lanciato l’allarme da Roma, proprio mentre si attende una decisione da parte dell’amministrazione Trump sull’eventuale imposizione di dazi ai farmaci europei.
La posizione dell’industria italiana è chiara: no a logiche protezionistiche in un settore che garantisce ogni giorno accesso alla salute e cura per milioni di persone. “La risposta ai dazi Usa deve essere politica”, ha incalzato Cattani, ricordando che l’Unione europea esporta 158 miliardi di euro in farmaci, di cui ben 11 miliardi destinati agli Stati Uniti. “Gli Usa non possono pensare di switchare 11 miliardi di farmaci semplicemente perché non ci sono Paesi in grado di fornire in tempo zero farmaci innovativi e di valore come quelli made in Italy”.
Un rischio sistemico per l’export italiano
Il rischio non riguarda solo i farmaci finiti, ma l’intera catena di valore: l’Italia esporta verso gli USA anche tecnologie produttive, impianti, packaging e know-how scientifico. Secondo dati Prometeia, l’export italiano di macchinari per la produzione farmaceutica supera i 2 miliardi di euro l’anno, con una quota crescente rivolta proprio agli Stati Uniti. Il nostro Paese è leader globale nella produzione di macchine per il confezionamento farmaceutico e vanta una filiera che unisce PMI e multinazionali in un ecosistema sinergico ad altissima specializzazione.
Nel 2024 l’export farmaceutico italiano ha superato i 50 miliardi di euro, e gli Stati Uniti rappresentano il primo mercato extra-UE, con oltre 11 miliardi di euro in farmaci esportati, spesso innovativi e personalizzati. La loro produzione è frutto di partnership pubblico-private, eccellenza manifatturiera e sistemi regolatori avanzati. Cattani ha ribadito: “Gli Stati Uniti non possono pensare di sostituire dall’oggi al domani questo valore produttivo, perché semplicemente non esistono Paesi alternativi in grado di replicare l’eccellenza italiana in tempi così rapidi e con pari affidabilità”.
Isolamento pericoloso e contesto geopolitico
Un’escalation di dazi e controdazi potrebbe avere un effetto devastante sull’intero equilibrio dell’ecosistema farmaceutico globale. Il rischio concreto, ha spiegato Cattani, è un isolamento pericoloso e controproducente: “Anche la posizione di andare a produrre farmaci negli Stati Uniti soddisfa il principio di autonomia strategica, ma bisogna fare attenzione: la produzione farmaceutica richiede anni. I cittadini hanno bisogno di farmaci subito, ogni giorno”.
Il contesto geopolitico rende il quadro ancora più fragile: le guerre commerciali, l’aumento dei costi di approvvigionamento (+30%), e la dipendenza europea da Cina e India per il 75% dei principi attivi e il 60% dell’alluminio sono dati che impongono scelte strategiche urgenti. La Cina, che oggi rappresenta il 30% degli studi clinici globali – contro il 35% degli Stati Uniti – si avvicina rapidamente alla leadership nella ricerca farmaceutica. L’Europa, invece, arretra, passando dal 44% al 21% in appena 15 anni. “Negli ultimi 25 anni abbiamo perso il 25% degli investimenti in R&S rispetto agli Stati Uniti”, ha osservato Cattani.
Il ruolo dell’Italia e le sue potenzialità
Solo nel 2024, l’industria farmaceutica italiana ha investito oltre 2 miliardi di euro in R&S e altrettanti in impianti di produzione ad alta tecnologia. Sono 24mila le molecole in sviluppo nel mondo, metà di sintesi chimica, metà biotecnologiche, e l’Italia può ancora attrarre una quota significativa di investimenti, grazie al suo patrimonio di competenze pubbliche e private. “Oggi è più facile reperire droni e armamenti che farmaci”, ha sottolineato Cattani con tono provocatorio. Un paradosso che ben evidenzia la complessità della filiera della salute: “La produzione farmaceutica richiede qualità, scala, competenze e innovazione continua. E questo l’Italia lo sa fare”.
Un patto per il futuro: l’alleanza con il CNR
In occasione del convegno, è stato firmato un protocollo tra Farmindustria e il Consiglio Nazionale delle Ricerche per rafforzare la formazione, accelerare il trasferimento tecnologico e facilitare lo sviluppo clinico dei farmaci. Un’alleanza strategica per affrontare sfide cruciali come l’invecchiamento della popolazione, le malattie croniche e neurodegenerative, e la sostenibilità del sistema sanitario.
Quale Europa?
“Quale sarà l’Europa di domani?” si è chiesto Cattani. “Abbiamo davanti due strade: quella di un’Europa lenta, burocratica e disincentivante, o quella di un continente che considera le life sciences un investimento strategico, capace di passare dalle parole ai fatti”.
La ministra Bernini ha concluso ribadendo il ruolo strategico della sinergia tra università, industria e ricerca: “Università, ricerca e industria farmaceutica non possono che essere alleati strategici. Sono tre anelli della stessa catena”.
Una posta in gioco altissima
Il futuro della farmaceutica europea – e italiana in particolare – si gioca oggi, nei tavoli geopolitici del commercio internazionale e nella capacità di tenere insieme innovazione, produzione e diplomazia industriale. Un settore che dà lavoro a oltre 70.000 persone in Italia, con salari qualificati, e che contribuisce in maniera crescente alla bilancia commerciale nazionale.
Le associazioni della filiera farmaceutica: voci sull’export
Diverse associazioni italiane della filiera farmaceutica hanno manifestato preoccupazione per le ripercussioni economiche e strategiche di eventuali dazi:
- AFI (Associazione Farmaceutici Industria) ha ribadito l’importanza di mantenere relazioni commerciali solide con gli USA. L’introduzione di barriere potrebbe compromettere la collaborazione internazionale nella R&S e l’accesso a mercati chiave per l’innovazione terapeutica.
- ASSORAM (Associazione Nazionale degli Operatori Commerciali e Logistici della Distribuzione Farmaceutica) ha ricordato che l’export non riguarda solo farmaci finiti, ma anche logistica, movimentazione di materiali critici, supply chain digitali e catene del freddo: tutte infrastrutture oggi integrate a livello transatlantico.
- Egualia (Industrie Farmaci Accessibili) ha sottolineato l’impatto che i dazi avrebbero sui farmaci equivalenti e biosimilari, fondamentali per la sostenibilità dei sistemi sanitari. Un incremento dei costi ridurrebbe l’accessibilità alle cure, penalizzando proprio i pazienti più fragili.
Difendere questa filiera significa non solo proteggere un’eccellenza economica, ma garantire l’accesso alle cure, la sicurezza sanitaria e il posizionamento tecnologico dell’Europa nel mondo. In questo equilibrio delicato, l’Italia può – e deve – giocare un ruolo da protagonista.