Le recenti evoluzioni del panorama politico statunitense, con il ritorno sulla scena di Donald Trump e l’annunciata intenzione di intervenire in modo drastico sugli assetti regolatori della sanità, pongono con urgenza il tema della salvaguardia della ricerca indipendente e basata sull’evidenza. In particolare, preoccupano le dichiarazioni relative a un ridimensionamento delle funzioni della Food and Drug Administration (FDA), già al centro di proposte di riforma in passato e ora nuovamente esposta al rischio di una deregolamentazione che potrebbe minare l’integrità scientifica del sistema approvativo.
Un recente editoriale pubblicato su The Lancet ha acceso i riflettori sulla questione, esortando l’Europa a riaffermare con decisione il proprio ruolo di guida nella promozione di una scienza medica equa, inclusiva e basata sulle prove. L’articolo denuncia i pericoli insiti in un modello che, privilegiando l’accelerazione dei processi a scapito della solidità metodologica, rischia di generare effetti distorsivi su scala globale. Il rischio più concreto? La crescente esclusione di fasce vulnerabili – come bambini, anziani e donne – dagli studi clinici, in violazione dei princìpi di rappresentatività e giustizia distributiva che la medicina moderna non può più permettersi di trascurare.
Deregolamentazione e scienza selettiva: un binomio pericoloso
Il dibattito sulla deregolamentazione della FDA non è nuovo, ma acquista oggi nuove connotazioni alla luce della retorica trumpiana che contrappone “libertà economica” a “burocrazia federale”. Una narrativa che ignora l’importanza della qualità delle evidenze e l’equilibrio necessario tra rapidità dell’accesso e rigore nella valutazione. Come ha rilevato anche un recente contributo su Health Affairs, la crescente pressione per approvare nuovi farmaci con studi preliminari di fase I o II, spesso privi di dati robusti di efficacia comparativa, rischia di creare false aspettative e compromettere la sicurezza dei pazienti.
La tendenza a considerare i dati come “beni strategici” e a piegare le metriche scientifiche alle logiche politiche o commerciali si inserisce in un contesto già segnato da sfide complesse: dallo shortage di revisori esperti alla crescente pressione dell’industria biotecnologica, dalla fragilità del sistema peer-review alla crescente opacità dei dati nei trial registrativi.
Il ruolo dell’Italia nel contesto europeo
In questo scenario, anche l’Italia è chiamata a rafforzare il proprio contributo al sistema regolatorio europeo. Negli ultimi anni, l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha compiuto passi significativi verso una maggiore trasparenza dei processi decisionali, come evidenziato dall’apertura degli HTA reports (Health Technology Assessment) e dalla pubblicazione dei dati relativi alla rimborsabilità dei farmaci. Tuttavia, permangono nodi critici, a partire dalla durata media dei tempi di accesso ai nuovi farmaci rispetto alla media UE, e dalla necessità di rafforzare la partecipazione italiana nelle task force europee per l’armonizzazione delle regole post-HMA/EMA.
A livello accademico, progetti come Alleanza per la Ricerca Biomedica in Italia (ARBI) e Convergenza hanno cercato di favorire un dialogo tra ricerca pubblica, industria e istituzioni, promuovendo un approccio integrato alla valutazione dei dati clinici. Inoltre, riviste come Recenti Progressi in Medicina e Giornale Italiano di Farmacoeconomia hanno più volte sollevato la necessità di investire in una cultura dell’evidence-based policymaking, per contrastare derive localistiche o approcci disomogenei che rischiano di minare la fiducia nel sistema.
Non va poi dimenticato l’impatto che queste dinamiche globali possono avere sui processi formativi: le scuole di specializzazione, i dottorati di ricerca e gli IRCCS italiani hanno il compito, oggi più che mai, di formare professionisti capaci di leggere criticamente la letteratura, comprendere i limiti degli studi, e contribuire alla costruzione di protocolli solidi, eticamente robusti e scientificamente verificabili.
Un’opportunità per l’Europa: guidare la scienza con rigore e inclusività
Nel contesto attuale, l’Europa ha non solo la possibilità, ma la responsabilità di offrire un’alternativa credibile. Un modello regolatorio che non ceda alla tentazione della scorciatoia, ma che rafforzi i presìdi scientifici ed etici a tutela della salute pubblica. È su questo fronte che si gioca una parte importante della credibilità delle istituzioni europee: promuovere studi multicentrici rappresentativi, armonizzare i criteri di valutazione tra EMA e le autorità nazionali, valorizzare la trasparenza nei dati e garantire processi decisionali indipendenti da condizionamenti politici o economici.
Anche la Commissione Europea, attraverso programmi come Horizon Europe e il nascente European Health Data Space, ha mostrato segnali incoraggianti in questa direzione. Ma serve una regia più forte, più coesa. E l’Italia può giocare un ruolo centrale, facendo leva sulla propria rete scientifica, sulla solidità delle sue scuole mediche e sulla spinta innovativa di startup e PMI del settore biotech e lifescience.
Rigore, evidenza, rappresentatività
La sfida che si apre oggi non è soltanto tecnica o regolatoria, ma profondamente culturale. Si tratta di scegliere tra una scienza guidata dalla trasparenza, dalla verifica continua, dalla rappresentatività dei dati – o una scienza selettiva, orientata da interessi contingenti. L’Europa può – e deve – fare la differenza, rilanciando una visione della ricerca come bene comune, fondamento del progresso e strumento di equità.
Nel confronto globale con modelli più permissivi o “scorciatoie normative”, la forza dell’Europa – e dell’Italia – non sarà solo nella qualità dei suoi dati, ma nella qualità delle sue scelte. Perché la scienza, quando è ben fatta, non ha bisogno di correre. Ha bisogno di durare.