L’Europa dei farmaci che non arrivano

Molti farmaci autorizzati dall’EMA non raggiungono i pazienti europei o arrivano con mesi, talvolta anni, di ritardo. Dietro questo paradosso si intrecciano nodi industriali, valutazioni HTA disallineate, negoziazioni di prezzo complesse e una supply chain fragile. Un’analisi critica del perché l’Europa produce innovazione, ma fatica a trasformarla in accesso reale.

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C’è un paradosso che attraversa la farmaceutica europea. Da un lato, mai come oggi l’Europa ha autorizzato così tanti nuovi farmaci: oncologici ultra-mirati, terapie geniche, biologici di nuova generazione, medicinali orfani, nuove piattaforme RNA. Dall’altro, cresce il numero di prodotti che non diventano mai realmente disponibili nei singoli Stati membri o che arrivano con ritardi tali da svuotare di senso la stessa innovazione.

L’EMA approva, ma i pazienti spesso non vedono.
Questa frattura — tra regulatory approval e patient access — è diventata una linea di instabilità sistemica. Non riguarda solo i Paesi con economie più deboli: interessa l’intera Unione, con intensità diversa. E mette in discussione uno dei pilastri del modello europeo: l’idea che innovazione e equità possano avanzare insieme.

Secondo analisi EFPIA-CRA 2025, circa 1 farmaco su 3 approvato dall’EMA non raggiunge almeno uno dei mercati dell’UE. Nei Paesi dell’Est la percentuale cresce, ma anche in aree tradizionalmente solide — Italia inclusa — si osserva un rallentamento del time-to-availability.

Non è una disfunzione semplice: è il risultato di scelte industriali, ostacoli economici, rigidità regolatorie e vulnerabilità produttive.

La mappa delle indisponibilità: un’Europa a velocità variabile

L’European availability gap non è uniforme. Le curve di disponibilità mostrano differenze nette:

  • Europa occidentale: buona disponibilità, ma con ritardi medi di 12–18 mesi nei negoziati di prezzo.
  • Europa centrale: maggiore variabilità, con casi in cui l’azienda decide di non presentare domanda di rimborsabilità.
  • Europa orientale: fino al 50% dei farmaci innovativi non arriva affatto, o arriva dopo anni.

E l’Italia? Si trova in una posizione intermedia: tempi di negoziazione più lunghi della media EU, pressioni crescenti sui prezzi e una pipeline di ATMP che rischia di entrare con lentezza o, in alcuni casi, di non entrare.

La “mappa dei buchi” è quindi un fenomeno strutturale, non episodico.

Il ruolo dell’industria: quando entrare in un mercato non conviene

Qui emerge il punto più spesso ignorato nel dibattito pubblico: non tutti i mercati europei sono attrattivi per l’industria.
E non per cattiva volontà, ma per una combinazione di fattori economici e produttivi.

1. Margini troppo bassi

Alcuni Paesi impongono tetti di spesa, reference pricing aggressivo o negoziazioni che comprimono i margini oltre la sostenibilità industriale.

2. Popolazioni piccole o frammentate

Per molti farmaci ultra-specialistici — oncologici mirati, ultra-orfani, terapie geniche — la quantità di pazienti potenziali è minima. Se il prezzo negoziato scende, non c’è ritorno possibile.

3. Costi di compliance elevati in relazione ai volumi

Serializzazione, dispositivi di sicurezza, traduzioni, farmacovigilanza: tutto ha un costo, spesso uguale sia per la Germania che per Malta.

4. Prioritizzazione delle linee produttive

La produzione globale è spesso concentrata su pochi impianti, molti dei quali gestiti da CDMO. Quando le risorse sono limitate, la priorità va ai mercati più remunerativi.

Il risultato? Una sorta di darwinismo dei mercati: i Paesi più attrattivi ricevono i nuovi farmaci per primi, gli altri arrivano dopo — o non arrivano affatto.

Il nodo regolatorio: HTA, rimborsi e disallineamenti nazionali

Se l’industria decide cosa è “possibile”, lo Stato decide cosa è “rimborsabile”.
E qui emerge un altro problema strutturale: l’Europa è un mercato unico solo sulla carta.

Ogni Paese:

  • valuta il farmaco con un’HTA diversa,
  • usa criteri differenti (clinical benefit, added value, cost-effectiveness, budget impact),
  • negozia con metodologie incompatibili,
  • applica tempi decisionali variabili e spesso imprevedibili.

Il risultato è un patchwork di 27 sistemi che rende impossibile un accesso sincrono.
L’unificazione HTA prevista per il prossimo quinquennio aiuterà, ma non eliminerà la variabilità dei prezzi e dei rimborsi — che restano prerogativa nazionale.

La supply chain: l’ingranaggio fragile che nessuno vede

Se la regolazione rallenta, la supply chain può addirittura fermare il processo.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a:

  • carenze di principi attivi,
  • aumento dei costi energetici,
  • siti produttivi unici,
  • colli di bottiglia nei bioreattori,
  • dipendenza da poche CDMO globali,
  • problemi di qualità che obbligano a sospendere lotti.

Quando la produzione non è sufficiente, l’azienda tende a privilegiare i Paesi con margini più alti, oppure quelli in cui la mancanza rischia di causare sanzioni o danni reputazionali maggiori.

L’Europa, nel frattempo, è ancora in ritardo nel costruire una capacità produttiva resiliente, soprattutto nel biologico e nelle ATMP: il cuore dell’innovazione terapeutica dei prossimi anni.

Perché un’azienda può scegliere di non entrare in Italia

È utile esplicitarlo, anche se spesso non lo si dice apertamente:

  • tempi lunghi di negoziazione (12–24 mesi),
  • pressioni al ribasso nei prezzi,
  • incertezza su payback e tetti di spesa,
  • requisiti complessi sui centri prescrittori,
  • preferenze crescenti per biosimilari equivalenti.

Nel caso dei farmaci ultra-orfani, lo sbilanciamento è ancora più evidente: l’Italia è un mercato importante, ma non decisivo. Se il margine industriale non c’è, la presentazione della domanda può non avvenire.

Le conseguenze: un’innovazione che non è “europea” ma geografica

Il problema non è solo industriale: è culturale e politico.

1. Per i pazienti

  • accesso diseguale,
  • migrazione sanitaria,
  • ritardo nell’arrivare alle terapie più efficaci,
  • aumento dell’uso di importazioni eccezionali.

2. Per i sistemi sanitari

  • perdita di competitività,
  • aumento dei costi indiretti,
  • difficoltà a pianificare l’introduzione di tecnologie avanzate.

3. Per l’industria

  • rischio di vedere l’Europa come mercato “difficile”,
  • pressione crescente a investire in USA e Asia,
  • slittamento della global launch sequence.

La vera posta in gioco non è solo l’accesso ai farmaci: è la credibilità industriale dell’Europa.

Verso una risposta europea: cosa si sta muovendo davvero

Negli ultimi due anni, Bruxelles ha messo sul tavolo tre grandi linee di intervento:

1. HTA europea congiunta

Un passo avanti, ma limitato: riguarda solo alcune categorie di medicinali e non interviene sui prezzi nazionali.

2. Incentivi alla produzione europea

Specie per biologici, ATMP e principi attivi critici.
Ma gli investimenti non sono ancora allineati alla complessità tecnologica delle nuove piattaforme.

3. Discussione sulla “European Launch Conditionality”

Una proposta non formalizzata, ma sempre più discussa:
condizionare certi incentivi regolatori alla disponibilità in tutti i Paesi UE entro una finestra temporale definita.

Un’idea ambiziosa — forse controversa — che evidenzia quanto il problema sia percepito come sistemico.

L’accesso come test di competitività europea

L’Europa non ha un problema di scienza: laboratori, centri clinici e istituti accademici sono tra i migliori al mondo.
Il problema è l’esecuzione industriale.

  • Frammentazione regolatoria
  • Divergenza nei prezzi e rimborsi
  • Produttività insufficiente nel biotech avanzato
  • Mercati piccoli e poco attrattivi
  • Supply chain vulnerabile

L’innovazione senza accesso è un’illusione.
E l’accesso senza sostenibilità economica è un miraggio.

Se l’Europa vuole continuare a essere un attore globale — e non solo un ottimo pubblico per le innovazioni altrui — deve ripensare il proprio modello di immissione in commercio, i meccanismi di prezzo e rimborso, e la capacità produttiva del continente.

I pazienti aspettano.
L’industria osserva.
Il mercato decide.

Ed è ora che l’Europa decida di nuovo per davvero.