Il 12 maggio Donald Trump ha firmato l’ordine esecutivo più aggressivo mai varato contro l’industria farmaceutica. Un atto di forza, tanto sul piano interno quanto su quello globale. Il principio è semplice e brutale: negli Stati Uniti, i farmaci su prescrizione dovranno costare quanto nei Paesi in cui hanno il prezzo più basso. Fino all’80%, persino al 90% in meno rispetto ad oggi.
In gergo diplomatico si chiama most favored nation clause. In pratica, è una bomba a orologeria lanciata nel cuore della globalizzazione farmaceutica.
L’America prima. Di tutto
La ratio addotta da Trump è chiara, quasi spiazzante nella sua brutalità numerica: “Gli Stati Uniti rappresentano meno del 5% della popolazione mondiale, ma finanziano tre quarti dei profitti globali dell’industria farmaceutica.”
È scritto nero su bianco nell’ordine esecutivo. E ancora: “L’industria applica sconti massicci nei mercati esteri per ottenere l’accesso, mentre i cittadini americani pagano la differenza.”
Trump non usa mezzi termini: se le aziende non si adegueranno, il governo potrà imporre unilateralmente i prezzi, autorizzare l’importazione parallela dei farmaci (ai sensi della sezione 804(j) del Federal Food, Drug and Cosmetic Act), rivedere le approvazioni FDA, e perfino revocarle. Una minaccia diretta, e tutt’altro che velata.
Il Segretario di Stato al Commercio ha ricevuto mandato di identificare “pratiche discriminatorie” dei Paesi esteri che impattano sulla sicurezza nazionale americana. La salute pubblica si fa strumento di politica estera, e di controllo commerciale.
I mercati reagiscono. E affondano
Le reazioni non si sono fatte attendere. Le Borse internazionali hanno registrato perdite pesanti per tutti i principali gruppi farmaceutici: Pfizer, Moderna, Sanofi, Roche, Eli Lilly, AstraZeneca.
Ma la scossa tellurica non si è fermata agli Stati Uniti.
Anche il titolo Recordati, fiore all’occhiello dell’industria italiana, ha chiuso in rosso. E non è stato il solo. La filiera globale, altamente interdipendente, non tollera scossoni unilaterali senza ripercussioni sistemiche.
Milano trema. Ma non trema da sola
Milano è uno dei cuori pulsanti della farmaceutica europea. Ospita le sedi italiane di Pfizer, Bayer, Sanofi, Merck, Johnson & Johnson, e gruppi storici come Bracco, Zambon, Italfarmaco, Mediolanum Farmaceutici.
A Gerenzano, DiaSorin produce reagenti che raggiungono ospedali e laboratori di tutto il mondo.
Solo in Lombardia, il settore Life Science genera ogni anno oltre 85 miliardi di euro e 346.000 posti di lavoro. Le esportazioni farmaceutiche della regione, nel 2023, hanno superato i 9,8 miliardi di euro, più che in Île-de-France e Catalogna messe insieme.
Ma se Milano è il centro visibile, l’intero sistema-Paese è coinvolto. L’Italia è oggi il primo esportatore europeo di farmaci, con 50 miliardi di euro di produzione e 280.000 addetti nella filiera, distribuiti tra Lazio, Toscana, Veneto, Emilia-Romagna, Campania.
È un’Italia che, dopo anni di investimenti, si è guadagnata un ruolo di primo piano. Ma che oggi rischia di scoprire quanto sia fragile il suo equilibrio, se il primo cliente — l’America — decide di riscrivere le regole.
Il rischio? Tornare comparse
Il punto, però, è più profondo. Non è solo il ribasso dei prezzi, o la perdita di valore azionario. È la perdita di sovranità industriale, se l’Italia — e l’Europa — accettano che siano altri a dettare le condizioni della competitività.
Perché se oggi è il prezzo dei farmaci, domani sarà la filiera produttiva. E dopodomani la gestione dei dati clinici, l’accesso ai brevetti, la regolazione dell’intelligenza artificiale in medicina.
E allora viene da chiedersi: chi sta pensando alla nostra strategia industriale per la salute?
Non un generico “piano triennale”, non un rifinanziamento dell’AIFA. Ma un progetto vero, strutturato, per difendere e rafforzare la nostra capacità di innovare, produrre, esportare. In un mondo dove la sanità non è più un diritto garantito, ma un campo di battaglia geopolitico.
Vision e mission della farmaceutica italiana
Nel caos apparente si cela sempre una chiamata alla responsabilità.
L’Italia ha competenze, aziende, talenti, territori vocati alla farmaceutica come pochi altri Paesi in Europa. Ma ha bisogno di coordinamento, di coraggio, e di visione.
Un piano nazionale per la salute che includa:
- incentivi stabili alla produzione e ricerca farmaceutica;
- accordi strategici con le Regioni;
- sinergie tra Ministeri (Salute, Imprese, Esteri, Ricerca);
- diplomazia industriale con Washington, Bruxelles e Pechino.
C’è ancora margine per agire, ma la finestra si va restringendo. In uno scenario globale sempre più competitivo, chi non definisce le proprie regole rischia di dover accettare passivamente quelle imposte da altri. Non è più sufficiente osservare o commentare: è il momento di decidere se restare spettatori o partecipare attivamente alla costruzione di una strategia industriale nazionale, capace di tutelare il nostro sistema salute e il ruolo dell’Italia nel panorama farmaceutico internazionale.