“Se non sei felice al lavoro non puoi esserlo nella vita”.
Una frase forte, quasi provocatoria.
Alcuni potranno esserne d’accordo, altri distaccarsene completamente. O credere che il contenuto valga solo se letta al contrario “se non sei felice nella vita non puoi esserlo al lavoro”.
Certamente il tema suscita un acceso dibattito, molto attuale se si considera il panorama contemporaneo, caratterizzato da profondi cambiamenti sociali e culturali che stanno ridefinendo il rapporto tra individuo e lavoro.
Il nuovo paradigma del lavoro
Il mondo del lavoro sta cambiando a una velocità notevole: se in passato la remunerazione e la stabilità erano le parole d’ordine, oggi sempre più si cercano flessibilità, welfare, smart-working. Questa trasformazione non è solo tecnologica ma anche culturale, con una nuova generazione di lavoratori (non soltanto appartenenti alla GenZ) che cerca nel proprio impiego non solo sostentamento economico, ma anche realizzazione personale e significato.
La pandemia ha accelerato drasticamente questo processo di trasformazione, portando alla luce nuove esigenze e aspettative. Il work-life balance – o come in certi casi si preferisce dire ora, work-life integration – è diventato una priorità assoluta e le aziende si trovano a dover ripensare completamente le proprie politiche di gestione delle risorse umane. Non si tratta più solo di offrire uno stipendio competitivo, ma di creare un ambiente di lavoro che favorisca il benessere complessivo della persona.
I dati sulla felicità al lavoro
A questo si aggiunge il fatto che numerose ricerche concordano nel sostenere che il lavoro è sempre meno un luogo dove le persone “stanno bene”. Un fenomeno che sta assumendo dimensioni preoccupanti, come evidenziato da diversi studi recenti.
La ricerca 23-24 dell’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, in collaborazione con BVA Doxa, mostra dati allarmanti: infelicità e malessere sono gli elementi principali che portano molti a cambiare lavoro. Come dichiarato, “solo il 9% degli italiani intervistati afferma di stare bene nell’impiego attuale prendendo in considerazione le tre dimensioni del benessere: fisico, psicologico e relazionale. Ancora più critico è il dato sulla felicità: attualmente solo il 5% è “felice” al lavoro”.
Questi numeri non sono solo statistiche, ma riflettono un profondo malessere che attraversa il mondo del lavoro contemporaneo. Un malessere che si manifesta in varie forme: dal burnout alla great resignation, fino al quiet quitting, fenomeni che testimoniano una crescente disconnessione tra le persone e il loro lavoro.
Le nuove priorità dei lavoratori
Il 7° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale del 2024 conferma questa tendenza: il lavoro non riveste più una posizione centrale nella vita delle persone e non basta a definire la posizione sociale di un individuo. Il dato più significativo è che l’87,3% degli occupati dichiara di ritenere un errore fare del lavoro il centro della propria vita.
Questo cambiamento di prospettiva riflette una più ampia trasformazione sociale: le nuove generazioni, in particolare, cercano un significato più profondo nel loro lavoro. Non si accontentano più di un’occupazione che garantisca solo sicurezza economica, ma desiderano un lavoro che permetta loro di esprimere i propri valori, sviluppare le proprie potenzialità e contribuire positivamente alla società.
Il tempo dedicato al lavoro
Questa situazione ci pone di fronte a un paradosso: passiamo al lavoro circa 1/3 delle nostre giornate (ma un altro 1/3 – più o meno – lo spendiamo per dormire, quindi per attività in cui non esercitiamo consapevolezza) e la maggior parte degli anni della nostra vita (mediamente 40), eppure sembriamo sempre più disconnessi da questa parte fondamentale della nostra esistenza.
Se consideriamo che una persona media trascorre circa 90.000 ore della propria vita al lavoro, diventa cruciale trovare un modo per rendere questo tempo non solo produttivo, ma anche significativo e appagante. Non si tratta solo di una questione di benessere individuale, ma di una vera e propria necessità sociale ed economica.
L’IKIGAI come risposta
In questo contesto, il concetto giapponese di ikigai emerge come una possibile risposta alla crisi di significato che attraversa il mondo del lavoro contemporaneo. L’ikigai, termine che deriva dall’unione di due parole “iki” (vivere) e “gai” (ragione), rappresenta molto più di una semplice teoria sulla felicità lavorativa. È un approccio olistico alla vita che cerca di integrare passione, missione, professione e vocazione in un unico, armonioso insieme.
Per i giapponesi, l’ikigai è “la ragione della propria esistenza”, il motivo per il quale ci si alza dal letto (felici!) ogni singola mattina ed è trasversale a ogni sfera di vita. Non si limita al lavoro, ma può manifestarsi in molteplici forme: un hobby come il giardinaggio, un’attività di volontariato o semplicemente – ma non per questo banalmente – nel vedere il sole tramontare la sera.
L’approccio giapponese ci insegna che l’ikigai non è necessariamente legato a grandi obiettivi o risultati straordinari. Può essere trovato nelle piccole cose quotidiane, nelle relazioni che coltiviamo, nel modo in cui svolgiamo anche i compiti più semplici. Questa prospettiva ci aiuta a superare l’idea che la realizzazione personale debba necessariamente passare attraverso il successo professionale tradizionalmente inteso.
Il processo di scoperta dell’IKIGAI
La ricerca dell’ikigai è un processo profondo e continuo che richiede una costante esplorazione interiore. Non si tratta di un obiettivo da raggiungere una volta per tutte, ma di un percorso di crescita personale che si coltiva quotidianamente, giorno dopo giorno, esperienza dopo esperienza.
Non esistono ricette predefinite e identiche per tutti: sperimentazione ed esplorazione di varie opzioni; è questo che bisogna fare per individuare il proprio ikigai. Siamo chiamati a riflettere criticamente sulla nostra vita, domandandoci continuamente: che cosa stiamo facendo? Per quale motivo? E per chi lo facciamo?
Spesso infatti sappiamo rispondere con facilità al primo interrogativo ma ci blocchiamo di fronte ai successivi due, restando intrappolati in un senso di vuoto e insoddisfazione.
Questo processo richiede una particolare attenzione alle nostre emozioni e sensazioni. L’ikigai prevede infatti due aspetti fondamentali:
- dare ascolto ai propri sentimenti
- chiedersi il motivo di determinate emozioni
È un percorso che richiede pazienza e dedizione. Non si può pretendere di trovare il proprio ikigai attraverso un corso rapido o una serie di esercizi preconfezionati. È necessario sviluppare una profonda consapevolezza di sé, delle proprie aspirazioni e dei propri valori.
Il modello di Marc Winn e la sua applicazione
Nel contesto lavorativo, il modello di Marc Winn offre uno strumento pratico per esplorare il proprio ikigai. Attraverso l’intersezione di quattro cerchi, questo modello ci aiuta a identificare:
- Ciò che si è bravi a fare: le nostre competenze ed expertise
- Quali sono le nostre abilità naturali?
- Cosa abbiamo imparato attraverso studio ed esperienza?
- In quali attività eccelliamo naturalmente?
- Ciò che si ama fare: le attività che ci energizzano e appassionano
- Quali attività ci fanno perdere la cognizione del tempo?
- Cosa ci entusiasma veramente?
- Quali sono le attività che ci danno energia invece di consumarla?
- Ciò di cui il mondo ha bisogno: il nostro contributo alla società
- Quali problemi possiamo aiutare a risolvere?
- Il mercato del lavoro di cosa necessita?
- Come posso rispondere io a queste esigenze?
- Ciò per cui puoi essere pagato: la sostenibilità economica delle nostre attività
- Quali delle nostre competenze hanno un valore di mercato?
- Come possiamo “monetizzare” le nostre passioni?
- Per quali attività veniamo pagati?
Affrontare i disallineamenti
L’intersezione di questi elementi non è sempre immediata o scontata. Spesso ci troviamo di fronte a disallineamenti: potremmo essere bravi in qualcosa che non amiamo fare, o amare attività per le quali non vediamo opportunità di guadagno. La sfida sta nel lavorare su questi disallineamenti, cercando modi creativi per avvicinare i diversi aspetti.
Questo può significare:
- Acquisire nuove competenze per rendere più commerciabili le nostre passioni
- Trovare modi innovativi per applicare le nostre competenze in ambiti che ci appassionano
- Identificare nicchie di mercato dove le nostre passioni possono trovare valorizzazione economica
- Ripensare il nostro ruolo professionale per includervi elementi più allineati con i nostri interessi
Il coraggio del cambiamento
Il processo di ricerca del proprio ikigai richiede alla persona perseveranza e focalizzazione. Significa essere disposti a mettersi in discussione, uscire dalla propria zona di comfort e, talvolta, ripensare completamente il proprio percorso professionale. Non si tratta di un percorso facile, ma è un’ottima strada per raggiungere quella profonda soddisfazione che deriva dall’allineamento tra ciò che siamo, ciò che facciamo e ciò che il mondo ci chiede.
L’impatto sociale dell’IKIGAI
Questo percorso di ricerca e scoperta del proprio ikigai rappresenta, in ultima analisi, non solo una via per la felicità personale, ma anche una risposta concreta alle sfide del mondo del lavoro contemporaneo. Quando le persone trovano il proprio ikigai, non solo sono più felici e produttive, ma contribuiscono anche a creare organizzazioni più innovative e resilienti, a creare un ambiente lavorativo più sano e sostenibile per tutti.
Le aziende che comprendono e supportano questo processo di ricerca dell’ikigai nei propri dipendenti sono quelle che più probabilmente prospereranno nel futuro. Non si tratta solo di implementare politiche di welfare o di work-life balance, ma di creare una cultura organizzativa che valorizzi l’unicità di ogni individuo e gli permetta di esprimere il proprio potenziale al meglio.
In un momento storico in cui il lavoro sta attraversando una profonda trasformazione, l’ikigai ci offre una bussola per orientarci verso un futuro in cui lavoro e felicità non siano più considerati elementi separati o addirittura antagonisti, ma aspetti complementari di una vita piena e significativa.