Quando l’anno di nascita conta

Un sondaggio condotto su un migliaio di manager mostra le motivazioni per cui le aziende storcono il naso quando si tratta di assumere candidati della Generazione Z. Discriminazione o precauzione?

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Passare dall’accademia all’azienda è sempre un passaggio difficile, che richiede un sostanziale cambio di mentalità. Pare, però, che per i nati tra il 1997 e il 2012, la cosiddetta Generazione Z, questo cambiamento nasconda particolari insidie. L’attitudine al lavoro e le competenze acquisite in generale da chi appartiene a questa generazione, infatti, sono spesso considerate insufficienti dalle aziende, che tendono a licenziare questi dipendenti poco dopo l’assunzione o a non assumerli affatto. Un quadro della situazione è stato tracciato da Intelligent.com, piattaforma di consulenza per l’istruzione e la carriera, che lo scorso agosto ha condotto un sondaggio su 966 manager di azienda coinvolti nel processo decisionale relativo alle assunzioni del personale.

Grazie, le faremo sapere

Entrando nel merito dei risultati del sondaggio, si legge che un manager su sei esita nell’assumere personale appartenente alla GenZ, generazione giudicata dalla maggior parte delle aziende intervistate pretenziosa, permalosa, con una scarsa etica del lavoro e incapace di reagire nel modo giusto ai feedback. L’età non è quindi un buon biglietto da visita per tutti quei neolaureati che si presentano ai colloqui venendo spesso giudicati impreparati al mondo del lavoro, poco comunicativi e scarsamente motivati ancora prima di iniziare l’iter di selezione. Più del 50% delle aziende ritiene addirittura che i neolaureati saranno prima di tutto un costo per l’azienda a causa dei training che dovranno seguire e ben nove manager su dieci pensano che i giovani che si affacciano al mondo del lavoro dovrebbero preoccuparsi di più dell’etichetta per potersi inserire in modo soddisfacente in azienda. Infatti, circa la metà delle compagnie intervistate ha già implementato dei corsi di etichetta, a volte resi obbligatori per chi appartiene alla GenZ.

Inoltre il 10-20% degli intervistati ritiene che i giovani neolaureati abbiano problemi a gestire il carico di lavoro e manifestino una scarsa professionalità sia nel modo di vestire o di parlare, sia arrivando tardi ai meeting o iniziando tardi a lavorare. Tutto questo contribuisce a donare loro la nomea di lavoratori ribelli e difficili da gestire, rendendo meno conveniente la loro assunzione e portando magari le aziende a fare una scelta diversa.

Il 5% dei manager intervistati è infatti sicuro che non assumerà nessun giovane laureato nel 2025, mentre il 10% è indeciso. E se nella metà dei casi questa affermazione deriva dal fatto che l’azienda non ha posizioni aperte per personale entry level, il 30% circa degli intervistati ammette che le motivazioni si intersecano con una generale preoccupazione relativa alla preparazione al lavoro della GenZ, oltre che all’elevata propensione dei giovani a cambiare posto di lavoro.

La scelta di licenziare

Anche quando un giovane neolaureato viene inserito tra il personale aziendale, però, non è detto che ci sia sempre un lieto fine. Il 75% dei manager intervistati, infatti, si è detto insoddisfatto delle recenti assunzioni di personale appartenente alla Generazione Z e ben sei aziende su dieci hanno licenziato un neolaureato assunto quest’anno, mentre nel 75% dei casi ci sono stati problemi con almeno una parte della forza lavoro più giovane assunta nel 2024. Le motivazioni che spingono a privarsi di personale su cui l’azienda ha già iniziato a investire devono essere rilevanti e analizzando i dati dell’intervista ci si accorge che sono simili a quelle che disincentivano le assunzioni. Nella metà dei casi il problema è la mancanza di motivazione o iniziativa del lavoratore, ma anche la poca professionalità e una scarsa capacità comunicativa sono state spesso rintracciate come causa di malcontento. Infine, una percentuale più bassa ma sempre significativa di intervistati ha trovato i membri della GenZ alle prese con il lavoro poco preparati a gestire i feedback e nel problem solving.

In quasi l’80% delle aziende intervistate un simile malcontento ha avuto anche un altro esito: l’inserimento delle risorse meno adeguate in piani aziendali di miglioramento della performance. Nonostante queste misure, però, nel 60% dei casi almeno un lavoratore ha finito per venire licenziato.

La situazione sembra quindi decisamente preoccupante per un’intera generazione di giovani che agli occhi di chi li precede sembra permalosa e viziata, abituata ad appoggiarsi su qualcun altro per risolvere i propri problemi ed eternamente insoddisfatta, forse anche a causa di aspettative poco realistiche e difficilmente raggiungibili. Gli studi accademici non riescono a fornire la preparazione pratica né le soft skill necessarie in azienda e finiscono per immettere nel mondo del lavoro giovani impreparati al contesto aziendale. Ma anche per le aziende la situazione non è rosea, dato che finiscono per privarsi di forza lavoro giovane e al passo con le novità di un mondo in continuo e rapido mutamento. Da parte loro infatti le aziende hanno tutto l’interesse nell’investire nei giovani e potrebbero aumentare l’impegno sul fronte del mentoring e delle partnership con le università.

Posizioni inconciliabili?

Analizzando i dati del sondaggio, tuttavia, si osserva che solo un manager su sette nel 2025 non ha intenzione di assumere un neolaureato, mentre l’84% degli intervistati pensa di assumerne almeno uno. Da un certo punto di vista il ricambio generazionale è infatti inevitabile e i più giovani tra i neolaureati possono inoltre portare nuove competenze e uno sguardo fresco su un mondo che a volte le generazioni precedenti faticano a comprendere.

La Generazione Z, che in Italia rappresenterà circa un terzo dei lavoratori entro il 2030, ha infatti una scala di valori generalmente molto diversa da quella di chi li ha preceduti. Il lavoro è innanzitutto visto come parte della propria identità e quindi i giovani neolaureati preferiscono scegliere attivamente il luogo in cui lavorare piuttosto che farsi scegliere. Inoltre la vita privata assume un’importanza senza precedenti, cambiando la scala di priorità di un neolaureato che si affaccia al mondo del lavoro: flessibilità invece che opportunità di carriera, equilibrio tra vita privata e lavorativa piuttosto che alti stipendi, possibilità di crescita personale più che stabilità. Anche le competenze interpersonali dei colleghi e dei manager assumono ora un’importanza particolare e qualità come empatia, trasparenza e rispetto per la salute mentale diventano una priorità che può portare a preferire un posto di lavoro piuttosto che un altro. Alla Generazione Z, infine, non manca certo il coraggio: infatti se l’ambiente diventa tossico e le condizioni lavorative li mettono alle strette, i giovani neolaureati sono più inclini a cambiare lavoro rispetto ai lavoratori del passato, tanto da annoverare tra le proprie file la più alta percentuale di job hopper (vedi box) mai registrata e da inserirsi nel fenomeno di Big Quit (vedi box) in atto ormai da diversi anni.

 

Job Hopper: Coloro che cambiano lavoro con una certa facilità, circa una volta ogni due anni. Le motivazioni possono essere molteplici: ottenere stipendi più alti, sfuggire all’insoddisfazione o a un ambiente lavorativo tossico, sviluppare la carriera, fare esperienze nuove. Questa tendenza ha iniziato a prendere piede tra i Millennial per poi diffondersi nella Generazione Z. L’Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro ha stabilito che nel periodo 2015-2016 circa 2,35 milioni di lavoratori hanno cambiato impiego almeno due volte in 24 mesi in Italia, mentre nel periodo 2020-2021 il loro numero si è avvicinato ai 3 milioni, crescendo circa del 20%.

 

Forse, entro certi limiti, sarà quindi il mondo del lavoro ad adattarsi alle nuove generazioni di laureati. Forse la Generazione Z si incontrerà a metà strada con i lavoratori che l’hanno preceduta, costruendo un delicato equilibrio dinamico tra ciò che ora viene ritenuto giusto e importante e la scala di valori insita in chi si affaccia oggi alle realtà produttive. La Generazione Z non è pronta al mondo del lavoro, ma in parte potrebbe essere vero anche il contrario.

 

Big Quit: L’ondata di licenziamenti volontari che negli Stati Uniti ha immediatamente seguito il periodo pandemico a causa del cambio di priorità suggerito dalla riflessione forzata imposta dall’emergenza sanitaria. La diffusione dello smartworking ha infatti permesso di vedere in una chiave diversa l’equilibrio tra lavoro e vita personale e ha messo la salute fisica e quella mentale al primo posto, incentivando a lasciare quei posti di lavoro incapaci di accogliere queste nuove esigenze. La definizione è poi uscita dai confini statunitensi ed è stata utilizzata per definire un trend iniziato negli anni precedenti al 2020 e ancora in atto, per cui i lavoratori tendono a licenziarsi più che in passato, a causa di paghe troppo basse, stress psicologico o impossibilità di carriera. Secondo Inps, in Italia il tasso di dimissioni nel primo trimestre del 2022 è aumentato del 35% rispetto al primo trimestre del 2021 e del 19% rispetto allo stesso periodo del 2019.

Fonti

  • Intelligent.com, 1 in 6 Companies Are Hesitant To Hire Recent College Graduates, Settembre 2024
  • Il Sole 24 Ore, GenZ e lavoro, visionari o viziati? Novembre 2023