Stiamo vivendo un periodo di grandi paradossi, da un punto di vista medico scientifico. Un momento storico in cui la ricerca pura procede a una velocità esponenziale, al punto da lasciar intravedere rivoluzioni epocali nel trattamento delle malattie. A fare da contraltare a questo scenario, l’altro lato della medaglia: un problema di sostenibilità dei costi delle terapie, le difficoltà di accesso alle stesse dovute a burocrazia, regolamentazioni inadeguate (per i tempi attuali) e colli di bottiglia da parte degli enti regolatori, causati da una richiesta di approvazioni che ha trovato gli apparati di governance impreparati a questa accelerazione.
In pratica, semplificando molto, ma non per questo sbagliando a prescindere, è come se il mondo della sanità procedesse a due velocità: da un lato – attraverso la rivoluzione delle “omiche” – si aprono spiragli per trattamenti fino a ieri non immaginabili. Dall’altro lato, la mancanza numerica di risorse e competenze rischia non di vanificare ma senz’altro di rallentare l’accesso alle terapie. E così il tragitto dai laboratori di ricerca al letto del paziente risulta molto meno lineare di quanto dovrebbe essere e di quanto possiamo immaginare.
Il boost della ricerca
Se guardiamo la situazione nella sua complessità non possiamo ascrivere questo tragitto tortuoso a un’unica causa specifica. Così fosse, il problema sarebbe facilmente risolvibile. Si tratta, invece, di uno scenario composito. Partiamo allora, in questo viaggio immaginario dal laboratorio al letto del paziente, dalla ricerca. Nel mondo sono attualmente in fase di registrazione circa 4.565 trial riferiti a terapie avanzate. Di questi, ben 112 sono in fase 3 di sperimentazione. Facendo un veloce excursus sulla realtà italiana (che ha le sue specificità), possiamo dire che la situazione ha una sua vivacità, fatta di numeri che non sono indifferenti: tra le prime terapie avanzate approvate da Ema, quattro sono state messe a punto nel nostro Paese. I dati del 2022 indicavano come ci fossero 23 trial clinici in corso per venire incontro a bisogni clinici insoddisfatti, essenzialmente nel campo oncologico, in quello delle malattie rare e in quello delle patologie neurodegenerative. Se questi numeri testimoniano la vitalità dell’ecosistema della ricerca e dell’industria (dei 112 studi in fase tre, 99 sono condotti in ambito industriale bio-farmaceutico, 13 dal comparto accademico/governativo o comunque istituzionale), dobbiamo però capire quali siano le forze uguali e contrarie che rendono la reperibilità del farmaci sul mercato simile all’approdo di Ulisse a Itaca, dopo la guerra di Troia.
A caro prezzo
Uno dei primi problemi è senz’altro quello dei costi. Perché le terapie innovative funzionano e anche molto bene, ma hanno il “difetto” di essere estremamente dispendiose e non solo: allo stato attuale molte di esse intercettano i bisogni di pazienti alle prese con malattie rare, perché sono straordinariamente ben caratterizzate da un punto di vista biologico e, dunque, è più semplice identificare un bersaglio terapeutico. La spesa per queste terapie sta aumentando in maniera esponenziale (come conseguenza dell’aumento del numero delle approvazioni). Nel 2023 la spesa è stata inferiore ai 300 milioni di euro. Ma le proiezioni indicano come già nel 2027 la forchetta si posiziona tra la previsione più economica, che porta comunque i costi a 905 milioni, e un aumento fino a un miliardo e 810 milioni.
La causa di questa esplosione di costi va cercata nella prevista approvazione di nuove terapie; se il trend di sviluppo e approvazione proseguirà secondo proiezioni, entro il 2030 potremmo avere fino a 60 nuove terapie geniche cellulari nell’arsenale medico, con un allargamento del plateau dei pazienti eleggibili al trattamento che andrebbe a toccare le 350mila unità. Il punto, dunque, è il seguente: come si potranno recuperare le risorse per rendere accessibili a tutti e sostenibili questi percorsi terapeutici? Se diamo retta ai clinici, dobbiamo introdurre alcune variabili importanti nel nostro ragionamento, che sono quelle relative ai costi sociali (ore di lavoro perse, progressione verso la disabilità, spese comunque da sostenere per altre terapie comunque necessarie, maggiori ospedalizzazioni dovuti a un peggior controllo della patologia) e indiretti. E il ragionamento è innegabilmente vero. Recentemente (solo per fare un esempio), è stato approvato il finerenone come molecola per il controllo della progressione del danno tissulare renale in caso di insufficienza renale cronica. Potenzialmente il farmaco riduce la progressione verso la dialisi e ogni paziente dializzato costa al Ssn una cifra variabile tra i 30 e i 50mila euro all’anno, da moltiplicare per 50mila, cioè il numero di pazienti dializzati.
Il ruolo delle agenzia regolatorie
Tuttavia nessuno è in grado di predire con certezza quali e quanti pazienti affetti da insufficienza renale è destinato certamente a dialisi e, dunque, i criteri per la rimborsabilità di finerenone sono stati complessivamente restrittivi e dedicati alle categorie di pazienti più a rischio. Un po’ come accadde per le prime terapie antivirali contro l’epatite C, all’inizio (per via degli alti costi di allora) dedicate solo a coloro che mostravano segni inequivocabili di progressione di malattia. Terapie costose vogliono dire grande impegno finanziario per il sistema sanitario e, dunque, bisogna fare i conti con coperte che rischiano di essere troppo corte, specialmente in un momento in cui le risorse destinate alla sanità sono comunque soggette a una sostanziale contrazione, data la necessità di far quadrare i conti dello Stato.
Ecco allora che la situazione diviene più scivolosa quando sappiamo che Aifa effettivamente è attiva nell’approvazione delle terapie innovative. Nel periodo compreso tra il 2018 e il 2021, tanto per fare un esempio pratico, Ema aveva autorizzato la messa in commercio di 46 terapie innovative in oncologia. Aifa, di queste 46, ne approvò ben 38. Si trattò di un risultato straordinariamente lusinghiero perché pose il nostro Paese al secondo posto dopo la Germania e la Svizzera. Si potrebbe quindi pensare a uno sforzo importante per consentire l’accesso ai migliori standard di cura assicurati dal progresso medico scientifico, ma le cose non stanno esattamente così. Aifa, infatti, certificava la bontà dell’approccio ma lo studio sul rapporto tra costo e beneficio richiedeva mediamente 419 giorni per portare la terapia fino al letto del paziente. È evidente che un’attesa di 419 giorni può fare tutta la differenza del mondo, quando si parla di patologie oncologiche. E si tratta di un’attesa che diviene ancor meno comprensibile quando apprendiamo che gli enti regolatori delle altre nazioni riescono a fare analoghe valutazioni in metà del tempo. Spesso meno ancora.
Strumenti come l’Early access da parte di Aifa non sono, allo stato, sufficienti per far fronte alla domanda di terapie avanzate. Secondo un sondaggio Aiom, il 90% degli oncologi ha cercato di ottenere farmaci antitumorali avanzati attraverso questo strumento. È chiaro che i clinici conoscono bene i vantaggi di tali terapie per i pazienti. E dunque cercare di darne piena disponibilità è una ambizione che fa rifuggire da ogni attendismo.
Del resto proprio l’attendismo per ciò che riguarda l’innovazione in sanità è un difetto atavico. Basti pensare alla digitalizzazione sanitaria: in epoca pre Covid, a fronte di una sostanziale approvazione dell’intento, il legislatore richiedeva che il riassetto del sistema venisse compiuto con invarianza economica. La riforma poteva essere fatta ed era auspicata da tutti. Ma non essendoci soldi per fare un investimento di sistema, è stato necessario attendere la pandemia, prima, e i fondi del Pnrr, poi.
Il gap di competenze
Se questa analisi appare già abbastanza complicata, non possiamo fare a meno di citare anche altri problemi che, più di recente, stanno emergendo a macchia di leopardo per ciò che riguarda le terapie avanzate. Il tema è quello della “voragine di competenze”, che detta così può sembrare quasi un’accusa di scarse capacità. Al contrario: mancano numericamente gli specialisti. Ci troviamo in un settore che ha un altissimo valore aggiunto da un punto di vista economico e che richiede quindi specializzazioni importanti in tutta la filiera produttiva. Esiste una domanda insoddisfatta di persone capaci di inserirsi con competenza all’interno di questo settore. E la voragine si sta lentamente allargando. Secondo uno studio condotto da The Manifacturing Institute e Deloitte, negli Stati Uniti alla crescita della domanda non corrisponde una crescita delle competenze per poter far fronte alla carenza di personale qualificato. Entro il 2028 potrebbero quindi crearsi spazi per due milioni e 400mila posti di lavoro nel settore biofarmaceutico che rischiano seriamente di non essere coperti. E quindi di non portare a produzione ciò che viene scoperto nei laboratori.
È un problema delle aziende? No, non solo. Anzi. Gli enti regolatori soffrono lo stesso problema e rischiano in qualche modo di strozzare lo sviluppo del mercato delle terapie avanzate. Fda ed Ema non sembrano oggi avere la possibilità di esaminare con il ritmo desiderato l’ondata di richieste di approvazione. Di fatto il 2023 è stato l’anno in cui abbiamo avuto il minor numero di approvazioni di terapie geniche e cellulari in Europa. Mentre gli Stati Uniti, attraverso la creazione di un dipartimento specifico in Fda, hanno sburocratizzato il sistema e sono sostanzialmente allineati al target annunciato di approvazione di 20 terapie innovative all’anno.
Insomma, dal laboratorio al paziente il viaggio è lungo e pieno di insidie – un’odissea – che si somma a quella dei pazienti, alle prese con malattie che un tempo venivano definire incurabili. E che invece adesso potrebbero avere una storia completamente diversa. Se solo si riuscisse a creare quella sinergia utile tra pubblico e privato che – a oggi – sembra la sola strada percorribile per garantire innovazione ed equità al sistema sanitario universalistico così come desiderato dai costituenti. E dai cittadini.