Ospedali civili in trincea preventiva: la Francia mobilita la sanità per un’emergenza bellica

La Francia chiede agli ospedali civili di prepararsi a un afflusso di 15mila feriti in caso di guerra in Europa. Una circolare ministeriale del luglio 2025 obbliga le agenzie sanitarie a predisporre piani di emergenza entro marzo 2026. Una scelta che apre interrogativi: perché militarizzare la sanità civile? Quali vantaggi offre e quali rischi comporta? Le esperienze del Covid, degli attentati e dei terremoti mostrano quanto la preparazione preventiva possa fare la differenza.

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A metà luglio il ministero della Salute francese ha inviato una direttiva alle autorità regionali sanitarie per predisporre ospedali civili in vista di un possibile scenario da guerra in Europa. Il piano, da completare entro marzo 2026, prevede la capacità di accogliere tra 10.000 e 15.000 militari feriti, con una media di 100 al giorno per 60 giorni e picchi di 250 al giorno per più giorni.

Nell’articolo, cerchiamo di analizzare le ragioni, i punti di forza e i limiti di questo attivismo sanitario preventivo, e come esperienze analoghe abbiano già messo alla prova ospedali civili in tutto il mondo.

Analisi dello scenario: prepararsi alla guerra come parte della sicurezza nazionale

La circolare francese non è un atto isolato. Arriva in un contesto segnato da tensioni geopolitiche crescenti: il conflitto russo-ucraino, le frizioni in Medio Oriente, l’instabilità dei rapporti con la NATO. Catherine Vautrin, ministra della Salute, ha voluto imprimere una svolta preventiva: non farsi cogliere impreparati da un afflusso di feriti militari che potrebbe travolgere la sanità pubblica.

L’obiettivo dichiarato è chiaro: pianificare con precisione. Ogni regione dovrà garantire la capacità di trattare almeno cento feriti al giorno per due mesi consecutivi, con la possibilità di gestire picchi giornalieri fino a 250 pazienti. Tradotto in numeri, significa predisporre strutture e personale per accogliere tra i diecimila e i quindicimila militari, su un orizzonte temporale che può variare da poche settimane a sei mesi. Non solo: dovranno nascere centri di triage e stabilizzazione nei pressi di nodi strategici come stazioni ferroviarie, porti e aeroporti, così da facilitare lo smistamento dei pazienti.

È un passo che, nei fatti, segna una parziale “militarizzazione” del sistema sanitario civile, chiamato a diventare parte integrante di una strategia di difesa nazionale.

Perché può essere una scelta utile

Guardando all’esperienza recente, il primo vantaggio è la possibilità di anticipare invece che reagire. La pandemia da Covid-19 ha insegnato quanto sia costoso correre dietro agli eventi: ospedali saturi, scorte di dispositivi insufficienti, personale sfiancato. In Francia, come in Italia, la mancanza di piani precisi nel 2020 ha costretto a soluzioni improvvisate. Stavolta l’idea è diversa: prepararsi per tempo, evitando di improvvisare in emergenza.

Un secondo aspetto riguarda l’integrazione tra ospedali civili e militari. Le strutture militari hanno capienza limitata; coinvolgere la rete ospedaliera civile significa moltiplicare i posti letto disponibili e diffondere competenze che, altrimenti, resterebbero confinate. È un modo per rafforzare la resilienza complessiva del sistema sanitario, trasformando ogni ospedale in un tassello di una rete nazionale pronta a rispondere a una crisi.

Infine, non è un terreno del tutto sconosciuto. La pandemia ha dimostrato che la modularità e la flessibilità sono possibili. Gli ospedali da campo allestiti in tempi record, dalla Fiera di Milano al Nightingale Hospital di Londra, hanno provato che il sistema civile può adattarsi a scenari straordinari, purché supportato da risorse e logistica adeguata.

Le ombre di una scelta difficile

Naturalmente, la decisione presenta anche limiti e criticità. La prima riguarda le infrastrutture. Gli ospedali civili non sono progettati per gestire masse di feriti da conflitto: traumi complessi, esplosioni, ferite da arma da fuoco. Mancano sale operatorie multiple dedicate a emergenze simultanee e reparti di riabilitazione intensiva per traumi bellici.

C’è poi il tema del personale sanitario. Medici e infermieri civili sono addestrati a urgenze comuni, ma non sempre a scenari di guerra. Un triage di massa con centinaia di feriti da trattare contemporaneamente richiede protocolli specifici, capacità di scegliere rapidamente chi salvare e chi no, supporto psicologico per gestire lo stress. Senza formazione adeguata e sostegno continuo, il rischio di burn-out sarebbe elevatissimo.

Infine, non va trascurato l’aspetto economico. Posti letto, attrezzature, farmaci e logistica significano costi importanti in un contesto in cui i sistemi sanitari europei già faticano a garantire i servizi ordinari. E resta aperto anche un problema di comunicazione: un piano così visibile può generare ansia nella popolazione civile, alimentando la percezione di una guerra imminente. Trovare il giusto equilibrio tra trasparenza e rassicurazione diventa cruciale.

Lezioni dal passato: quando gli ospedali civili sono stati messi alla prova

Il piano francese non nasce in un vuoto storico. Diverse emergenze degli ultimi decenni hanno già messo i sistemi sanitari civili di fronte a prove straordinarie.

  • La pandemia di Covid-19 (2020) ha rappresentato lo stress test più evidente. In Lombardia, reparti interi furono riconvertiti in terapie intensive. In altri Paesi furono costruiti ospedali da campo in parchi e centri congressi. La mancanza di scorte e protocolli ha però mostrato quanto un sistema possa collassare rapidamente senza preparazione.
  • Gli attentati di Parigi (2015) costrinsero ospedali come l’Hôpital de la Pitié-Salpêtrière a gestire centinaia di feriti gravi in poche ore. Il “Plan Blanc” francese, che prevedeva esercitazioni regolari e procedure già definite, permise una risposta efficace, dimostrando il valore di piani preventivi.
  • Le catastrofi naturali, come il terremoto dell’Aquila nel 2009 o quello di Haiti nel 2010, hanno messo in luce la vulnerabilità fisica degli ospedali stessi: edifici lesionati, reparti evacuati, pazienti trasferiti in altre regioni. La lezione fu chiara: servono strutture antisismiche, piani di evacuazione rapidi e ospedali da campo pronti a intervenire.
  • Il conflitto in Ucraina (dal 2022) ha coinvolto direttamente gli ospedali civili dei Paesi vicini, come Polonia e Moldavia, che hanno dovuto trattare feriti da combattimento e coordinarsi con la rete internazionale per trasferimenti e stabilizzazioni. Una dimostrazione concreta di come una guerra regionale possa avere effetti sanitari transnazionali.

Conclusioni: tra memoria e prevenzione

Il piano francese appare dunque come un esercizio di memoria: non ripetere gli errori del passato, imparare dalle emergenze già vissute. Preparare ospedali civili a un eventuale scenario bellico non significa evocare la guerra, ma rendere il sistema sanitario parte integrante della sicurezza nazionale.

Per Paesi come l’Italia, la riflessione è inevitabile. Dobbiamo chiederci se i nostri ospedali sarebbero in grado di reggere a un afflusso improvviso di migliaia di pazienti straordinari. Le esperienze del Covid-19, dei terremoti e degli attentati terroristici dimostrano che la differenza tra il collasso e la resilienza sta spesso nella capacità di pianificare in tempo.

Il punto centrale resta questo: spendere oggi per prepararsi a un rischio che potrebbe non verificarsi può sembrare oneroso. Ma non farlo significa rischiare di pagare, domani, un prezzo molto più alto, come la storia recente ci ha già insegnato.