Finora l’impronta degli esseri umani sul pianeta non è stata affatto leggera. A oggi abbiamo alterato il 75% degli ecosistemi terrestri e il 66% di quelli marini, con conseguenze difficilmente ponderabili. Questa alterazione ha diverse cause, ma una prevale su tutte: le nostre necessità agro-alimentari. Sfamare la popolazione globale è un grande sforzo per il nostro pianeta e spesso le nostre abitudini alimentari non lo aiutano. Eccessivo consumo di alimenti di origine animale, allevamenti intensivi e un rapporto deteriorato con la fauna selvatica hanno conseguenze rilevanti sugli ecosistemi. E sulla nostra salute. Un esempio è la diffusione della peste suina africana, infezione che, come si legge nel dossier WWF Toccare con mano la crisi ecologica, sta sollevando i timori del comparto zootecnico italiano e non solo.
Le origini del virus
La peste suina africana è un’infezione letale per maiali, cinghiali e facoceri, per la quale non esistono vaccini. Si tratta di un virus, unico membro del genere Asfivirus (famiglia Asfaviridae), di cui finora sono stati mappati 24 genotipi diversi. La letalità può arrivare al 100% e la trasmissione avviene per contatto diretto o indiretto.
La prima volta la peste suina africana è stata descritta in Kenya nel 1921 in maiali infettati da facoceri selvatici. Proprio i facoceri infatti, insieme alle zecche, sono i reservoirs originali di questo virus. In Europa l’infezione è invece arrivata nel 1957, diffondendosi dal Portogallo al resto del continente, mentre in Asia il contagio è iniziato tra il 2017 e il 2018. In Italia il virus esiste come forma endemica in Sardegna dagli anni ’70, ma non è questo a preoccupare gli addetti ai lavori.
I numeri dell’infezione
Infatti il motivo per cui negli ultimi mesi il mondo della zootecnia italiana ha rivolto la sua attenzione a questa malattia è che nel gennaio 2022 otto cinghiali sono risultati positivi in territorio piemontese. Il numero potrebbe essere grandemente sottostimato, visto che l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta (IZSTO) ha segnalato come il rischio potrebbe riguardare circa 16-20 mila capi.
Il virus riscontrato in Piemonte è geneticamente diverso da quello sardo, mentre corrisponde a quello che circola nel resto d’Europa, segno che il contagio dovrebbe essere avvenuto a partire da altri Paesi dell’Unione. Visto che l’Italia è al quarto posto in Europa per numero di animali allevati, con ben 9 milioni di maiali, l’impatto della malattia potrebbe diventare davvero importante.
La buona notizia è che la peste suina africana non è trasmissibile all’uomo. Ma basta questo per farci tirare un sospiro di sollievo? Siamo ormai consapevoli di quanto possa essere labile la barriera che separa una malattia animale da una umana e la contaminazione di animali con cui siamo a stretto contatto rappresenta una minaccia alla nostra salute più diretta di quanto possa apparire. Senza contare le gravi ripercussioni economiche che questa infezione potrebbe portare con sé.
Cause e fattori scatenanti
Secondo la FAO la diffusione della malattia è causata principalmente dal trasporto e dall’importazione illegali di alimenti suini e dalla densità delle popolazioni di cinghiali sul territorio. In Italia il numero di questi animali è andato crescendo negli anni, rendendo il loro incontro con gli animali allevati sempre più probabile. Nel 2021 il Ministero della Salute ha infatti emanato due documenti finalizzati al controllo della peste suina africana sul territorio italiano attraverso la gestione delle popolazioni di cinghiali: il Piano Nazionale di Sorveglianza e Prevenzione e il Manuale delle Emergenze da Peste Suina Africana.
Il concetto stesso di allevamento è poi un fattore di rischio per il diffondersi della malattia. Certamente quello intensivo è particolarmente suscettibile al problema: l’alta densità degli animali causa un indebolimento del loro sistema immunitario e facilita la circolazione dei patogeni e la loro replicazione. Ma anche gli allevamenti non intensivi e addirittura quelli biologici potrebbero essere a rischio se non adeguatamente isolati dall’ambiente esterno. Esiste infatti la possibilità che animali selvatici infetti contagino quelli allevati. Tuttavia per il momento l’EFSA ha escluso l’Italia dalle zone di preoccupazione e nessun caso è stato finora riscontrato nei maiali allevati sul nostro territorio.
Contrastare l’infezione
Le misure per impedire la diffusione della peste suina africana si concentrano principalmente sulle popolazioni selvatiche di cinghiali. Il loro monitoraggio, così come l’attività di caccia controllata e di rimozione delle carcasse, sono alcuni esempi di azioni previste. Anche l’aumento della biosicurezza degli allevamenti è una strada da percorrere per evitare il contatto tra specie allevate e selvatiche.
Inoltre il Ministero delle Politiche Agricole e quello della Salute hanno vietato una serie di attività nei 114 comuni di Piemonte e Liguria interessati dall’infezione. Ne sono esempi la raccolta di funghi e tartufi, il trekking, la pesca, la mountain-bike e la caccia, esclusa naturalmente quella al cinghiale.
Da non sottovalutare per il WWF è infine il ruolo di predatori e necrofagi nel contrastare la diffusione del virus. Animali come lupi, sciacalli e volpi abbattono infatti esemplari malati o eliminano le carcasse di quelli morti.
Peste suina africana e COVID-19
Il parere di una parte della comunità scientifica prevede inoltre che l’ingente abbattimento di maiali avvenuto in Cina nel 2018 a causa della peste suina africana possa aver trainato lo spillover di Sars-CoV-2. Infatti il calo nell’offerta di carne suina, pilastro della cucina cinese, sembra aver incrementato il consumo di specie selvatiche alternative, con i risultati che ben conosciamo.
Le nostre azioni hanno conseguenze a livello ecologico non sempre prevedibili. Quello che invece sappiamo con certezza è che il nostro stile di vita ha causato alterazioni degli ecosistemi che stanno finendo per ritorcersi contro di noi. Uomo, animali e ambiente, tre attori le cui vicende sono integrate in un’unica trama.