La parte invisibile degli audit GMP

Viaggio nella psicologia delle ispezioni farmaceutiche. L’articolo indaga la componente psicologica negli audit GMP, evidenziando come emozioni, bias cognitivi e soft skills influenzino l'esito delle ispezioni. Una riflessione su come trasformare l’audit da momento di giudizio a opportunità di crescita e cultura della qualità

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C’è un aspetto degli audit GMP che sfugge ai manuali di compliance, ai protocolli di validazione e ai diagrammi di flusso delle non-conformità. Un aspetto che, come una corrente sotterranea, attraversa ogni ispezione senza mai mostrarsi apertamente: la componente psicologica.

Non parliamo di manipolazione né di retorica aziendale. Parliamo di psicologia reale, di emozioni, percezioni, reazioni che si muovono tra auditor e auditee, influenzando il corso stesso dell’audit, come correnti invisibili sotto una superficie apparentemente calma.

Un libro recente, GMP Audits and Inspections: The Psychological Component, ha avuto il merito di portare alla luce questa dimensione spesso ignorata. Non è un testo di trucchi o strategie difensive: è un invito alla consapevolezza. A riconoscere che gli audit non sono solo confronti tra documenti e checklist, ma anche, inevitabilmente, incontri tra esseri umani.

Le persone dietro ai documenti

È un’illusione comoda pensare che un audit sia un semplice atto tecnico. L’ispezione, per sua natura, è un atto umano, carico di aspettative, emozioni e giudizi, tanto da una parte quanto dall’altra.

L’auditor non è una macchina oggettiva: porta con sé il suo carattere, la sua esperienza, i suoi pregiudizi inconsci. Allo stesso modo, l’auditee non è solo un rappresentante del sito ispezionato: è una persona sottoposta a pressione, spesso preoccupata di apparire competente, precisa, “compliant” in ogni risposta.

In questo contesto, ogni gesto, ogni parola, ogni silenzio può assumere significati che vanno oltre il loro valore apparente. Un’esitazione può sembrare sospetta. Un eccesso di sicurezza può risultare arrogante. Un’informazione condivisa senza tatto può innescare tensioni inutili.

Come spiega uno studio pubblicato su Frontiers in Psychology, l’intelligenza emotiva del team ha un impatto diretto sulla qualità degli audit. Team capaci di riconoscere e gestire le emozioni proprie e altrui ottengono risultati migliori, instaurano rapporti più collaborativi e riducono la probabilità di conflitti.

La paura e la fiducia

Durante un audit, la paura gioca un ruolo centrale, spesso taciuto. Non una paura teatrale o drammatica, ma una sottile ansia da prestazione: la paura di sbagliare, di non essere capiti, di subire conseguenze per un’informazione detta male o fuori contesto.

Secondo Amy Edmondson, docente alla Harvard Business School, la cosiddetta “sicurezza psicologica” è essenziale nei team ad alte prestazioni (se ne parla anche in questo articolo che riprende la teoria pionieristica sviluppata dalla professoressa ad Harvard). In un ambiente psicologicamente sicuro, gli individui si sentono liberi di fare domande, di ammettere errori, di portare idee senza il timore di essere puniti o umiliati.

Applicato al mondo GMP, questo concetto significa che un’azienda che favorisce la sicurezza psicologica prepara i propri collaboratori a vivere l’audit non come una minaccia da cui difendersi, ma come un’opportunità per dimostrare, con serenità, la qualità del proprio operato.

L’auditor come osservatore imperfetto

Anche gli auditor, naturalmente, sono soggetti ai limiti della percezione umana. Studi sul “confirmation bias” – il fenomeno per cui tendiamo a cercare conferme alle nostre convinzioni preesistenti – mostrano che nessun osservatore è del tutto neutrale.

Un auditor che si forma un’impressione iniziale negativa può inconsapevolmente interpretare ogni elemento successivo in modo più critico. Viceversa, un’impressione positiva può indurre a una minore severità. La professionalità e l’esperienza aiutano a contenere questi bias, ma non a eliminarli del tutto.

È un altro motivo per cui la gestione consapevole della comunicazione, del linguaggio del corpo e della relazione personale durante l’audit diventa tanto importante quanto la precisione documentale.

Soft skills: la nuova compliance invisibile

Nella narrativa aziendale si parla sempre più di “soft skills”. Non come optional, ma come competenze strategiche. Tra queste, spiccano:

  • Ascolto attivo: saper cogliere le vere intenzioni dietro le domande.
  • Gestione dell’ansia: rimanere lucidi sotto pressione.
  • Adattabilità comunicativa: calibrare il registro comunicativo in base all’interlocutore.

Queste capacità non sostituiscono la compliance tecnica, ma la accompagnano e la rendono più efficace.

Un buon training per la preparazione agli audit dovrebbe ormai includere, accanto ai refresh normativi, anche momenti di formazione psicologica: gestione delle emozioni, dinamiche di gruppo, tecniche di comunicazione assertiva.

Verso una nuova cultura dell’audit

L’immagine tradizionale dell’audit come processo punitivo deve lasciare spazio a una visione più moderna: l’audit come strumento di crescita, di dialogo tecnico, di miglioramento condiviso.

In questa prospettiva, la psicologia non è un orpello, ma un acceleratore di qualità. È la chiave per trasformare un momento di tensione in un momento di apprendimento, per passare dalla difesa all’apertura, dalla paura alla fiducia.

Cambiare mentalità è spesso l’unico modo per risolvere davvero i problemi che noi stessi abbiamo contribuito a creare. Nel mondo GMP, questo significa che non possiamo puntare a una qualità autentica se continuiamo a vedere l’audit come una guerra tra ispettore e ispezionato. Serve un cambio di paradigma: un audit non è un tribunale, è un laboratorio di cultura della qualità.

Uno scambio di sguardi

Non sarà una modifica di una SOP a cambiare la natura degli audit. Sarà un cambio di sguardo.

Accettare che ogni audit sia anche un incontro tra psicologie diverse – con le loro paure, i loro bias, le loro emozioni – non è un segno di debolezza. È il primo passo per renderlo più equo, più efficace, più umano.

E forse anche per costruire, finalmente, una qualità farmaceutica che non si limiti a essere verificata, ma che sia davvero vissuta.