La crisi della ricerca clinica indipendente in Italia

In Italia la ricerca clinica indipendente sta vivendo un calo strutturale, con una riduzione significativa degli studi no-profit e un crescente squilibrio rispetto alle sperimentazioni industriali. Tra criticità regolatorie, carenza di personale e debolezza organizzativa, il Paese rischia di perdere autonomia scientifica. Servono competenze, semplificazione e finanziamenti stabili per avviare una reale inversione di tendenza.

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La ricerca clinica indipendente in Italia sta attraversando una fase di contrazione strutturale. Negli ultimi quindici anni la quota di studi no-profit è scesa dal 40,3% del totale al 17,3%, un calo di circa il 57% che segnala una riduzione significativa della capacità del sistema di produrre evidenze cliniche non condizionate da logiche di mercato. Anche il numero assoluto di avvii resta basso: nel 2023 sono stati registrati solo 106 studi indipendenti, un incremento marginale rispetto al 2022 che non modifica il quadro generale. Per un Paese che storicamente ha avuto un ruolo forte nella ricerca cooperativa, soprattutto in oncologia, questo trend rappresenta un campanello d’allarme.

Il dato non è solo quantitativo. La contrazione degli studi indipendenti riflette un indebolimento delle strutture di ricerca interne agli ospedali e agli IRCCS, con una progressiva perdita di competenze dedicate alla progettazione, alla gestione e all’analisi dei trial. Questo fenomeno ha conseguenze dirette sulla capacità dell’Italia di influenzare linee guida, raccomandazioni cliniche e policy sanitarie.

Non solo risorse: una crisi organizzativa e professionale

Sebbene la narrazione pubblica attribuisca spesso il declino della ricerca no-profit alla mancanza di finanziamenti, la realtà è più complessa. Il sistema soffre soprattutto di un deficit di competenze e strutture. In molti centri mancano figure fondamentali come data manager, biostatistici, monitor e trial coordinator, senza le quali è difficile gestire studi che richiedono procedure rigorose, monitoraggio costante, raccolta dati di qualità e un’interfaccia efficace con i comitati etici.

Questa carenza produce un paradosso: anche quando i fondi ci sono — come quelli messi a disposizione dal programma AIFA per la ricerca indipendente — pochi centri sono realmente in grado di utilizzarli. Il problema, quindi, non è tanto la disponibilità economica quanto il “tasso di assorbimento” del sistema, che resta molto basso. Senza un rafforzamento delle competenze, i finanziamenti non si trasformano in ricerca concreta.

La forza della ricerca industriale e l’asimmetria che ne deriva

La maggior parte degli ospedali italiani aderisce con continuità agli studi sponsorizzati dall’industria farmaceutica. Questi studi offrono vantaggi evidenti: supporto logistico completo, protocolli standardizzati, rimborsi economici e una gestione amministrativa molto più semplice rispetto agli studi indipendenti. Per centri che operano con personale limitato e carichi assistenziali elevati, la ricerca industriale è di fatto la via più sostenibile.

Il risultato è una forte asimmetria. Le risorse professionali più qualificate vengono assorbite quasi interamente dagli studi sponsorizzati, mentre i progetti indipendenti restano ai margini. In assenza di un modello strutturato che tuteli la ricerca no-profit, questa dinamica rischia di diventare irreversibile, con conseguente perdita di autonomia scientifica e riduzione della capacità nazionale di proporre studi orientati alla salute pubblica.

Il peso della burocrazia: un ostacolo ancora irrisolto

La dimensione regolatoria è uno dei principali fattori che frenano la ricerca indipendente. La riforma dei Comitati Etici ha ridotto il loro numero, ma non ha uniformato i tempi né semplificato in modo sostanziale le procedure. Molti comitati restano sottodimensionati e faticano a gestire il carico di valutazioni, con conseguenti ritardi e ampliamento delle asincronie tra territori.

Anche l’introduzione del Clinical Trials Information System (CTIS), il nuovo portale europeo per la gestione degli studi clinici, richiede un livello di competenza amministrativa e informatica che non tutti i centri possiedono. In assenza di formazione dedicata e supporto operativo, la digitalizzazione rischia di aggravare le difficoltà invece di risolverle. Per uno studio no-profit, spesso privo di uno sponsor strutturato, l’impatto burocratico rappresenta un ostacolo sproporzionato.

Perché il declino degli studi indipendenti è un problema nazionale

La diminuzione della ricerca indipendente in Italia non è solo una questione numerica: ha ricadute concrete sulla qualità del sistema sanitario. Gli studi no-profit sono quelli che affrontano temi che difficilmente trovano interesse industriale, come l’appropriatezza prescrittiva, il de-prescribing, la gestione ottimale dei percorsi di cura, il confronto tra terapie equivalenti, l’uso razionale delle risorse e la valutazione degli esiti clinici reali.

Se questi ambiti non vengono esplorati attraverso ricerca indipendente, il rischio è duplice. Da un lato, le decisioni cliniche rischiano di basarsi quasi esclusivamente su dati generati da studi sponsorizzati, con una prospettiva limitata agli interessi industriali. Dall’altro, il Servizio Sanitario Nazionale perde strumenti fondamentali per migliorare qualità, efficienza e sostenibilità delle cure. Una riduzione della ricerca indipendente significa ridurre la produzione di evidenze orientate alla salute pubblica, con un impatto diretto su pazienti, clinici e decisori.

Le condizioni minime per un’inversione di tendenza

Una ripartenza credibile della ricerca clinica indipendente richiede interventi mirati. Il primo ambito riguarda le competenze: servono programmi stabili di formazione e carriera per data manager, biostatistici, monitor e project manager della ricerca. Senza una filiera professionale riconosciuta, la ricerca indipendente continuerà a essere un’attività residuale, affidata a personale non dedicato.

Un secondo elemento riguarda la semplificazione regolatoria. Per gli studi no-profit servono procedure proporzionate, supporti centralizzati e modelli documentali uniformi, in modo da ridurre l’impatto amministrativo sui ricercatori. Parallelamente, andrebbe rivisto il modello di finanziamento del fondo AIFA, introducendo una componente stabile non dipendente dalle oscillazioni delle spese promozionali delle aziende farmaceutiche.

Infine, il rilancio della ricerca indipendente passa dalla creazione di reti cooperative tra IRCCS, università, società scientifiche e gruppi collaborativi. La condivisione di infrastrutture digitali, competenze e processi può compensare la debolezza individuale dei centri e aumentare la capacità di produrre studi di qualità.

Conclusione

Il declino della ricerca clinica indipendente in Italia è il risultato di criticità che coinvolgono finanziamenti, competenze, burocrazia e governance. Non si tratta di una fase temporanea, ma di un processo strutturale che sta riducendo l’autonomia scientifica del Paese e la capacità del Servizio Sanitario Nazionale di generare evidenze orientate alla salute pubblica. Per invertire la rotta serve una strategia coerente: rafforzare le competenze, semplificare le procedure, stabilizzare i finanziamenti e costruire reti cooperative solide. Senza un intervento sistemico, la ricerca indipendente rischia di diventare marginale, lasciando alla sola ricerca industriale il compito di orientare scelte cliniche e politiche sanitarie.