Nonostante il business farmaceutico si basi in gran parte sulla R&S e sulla capacità innovativa di un’azienda, il settore biofarmaceutico è sempre stato restio alla digital transformation ovvero a implementare le tecnologie digitali più innovative.
La società di consulenza McKinsey cinque anni fa assegnava al settore un indice medio di maturità digitale pari a 27 punti (su un massimo di 100), ben al di sotto della media globale (33) e di quella di altri comparti, come le telecomunicazioni (36) e i viaggi (49). Con l’inizio della pandemia di Covid-19, però, il panorama è improvvisamente mutato. Tutt’a un tratto le aziende pharma sono state costrette a ripensare alla loro organizzazione e a dirottare una parte consistente dei propri investimenti sul digitale.
Cloud, intelligenza artificiale e Internet of Things (IoT) sono diventate prioritarie per adattare la produzione alle nuove condizioni. Ora che si intravede un’uscita – seppur timida – dall’emergenza, il settore si trova a un punto di svolta dovendo scegliere se votarsi definitivamente alla digital transformation o se contenerla, tornando lentamente verso lidi più conosciuti.
Il dado è tratto
Secondo Deloitte, la prima opzione è la più probabile (oltre che auspicabile). Stando ai dati presentati sul report “Biopharma digital transformation: gain an edge with leapfrog digital innovation”, lo slancio verso l’innovazione digitale non è destinato a rallentare, anzi.
Un’indagine svolta dalla società nel 2021 su 150 dirigenti C-level di grandi aziende biofarmaceutiche (quelle con un giro d’affari di almeno un miliardo di dollari) ha rilevato che una schiacciante percentuale degli intervistati (82%) confida in una continuazione del processo anche dopo il termine della pandemia. Tre su quattro, inoltre, sono convinti che nel prossimo futuro il livello di innovazione digitale rappresenterà un fattore decisivo per la differenziazione competitiva.
Early adopter e follower
Ciò non significa, però, che le organizzazioni siano realmente pronte al salto. Solo un terzo degli intervistati ritiene di lavorare in un’azienda pionieristica (early adopter), guidata da “visionari che adottano rapidamente le tecnologie e stabiliscono il ritmo per l’industria”.
Il 57% considera piuttosto la propria organizzazione come un “fast follower”, che segue il percorso tracciato dai concorrenti dopo che questi hanno dimostrato il valore delle tecnologie. Governance, dunque, non in grado di catturare il vantaggio dei “first-mover”.
La maggior parte di questi dirigenti (80%) è convinta che la loro società debba essere più aggressiva e adottare più rapidamente le tecnologie digitali per essere competitiva sul mercato. Un altro 10% degli intervistati è ancora più critico, convinto di appartenere a un’organizzazione di “ritardatari”, troppo lenti ad adottare le nuove soluzioni tecnologiche.
Il livello di implementazione delle diverse tecnologie, comunque, varia anche in funzione del comparto di azione. In generale, le soluzioni che hanno trovato più spazio nella pratica quotidiana sono il cloud (indicato da quasi metà degli intervistati), l’intelligenza artificiale (38%), i data lake (33%) e gli indossabili (i “wearable”, con il 33%). Altre tecnologie più avanzate, come i digital twin (12%), la blockchain (11%) e il quantum computing (7%) sono risultano invece ancora alle prime fasi di sviluppo (figura 1).
La nuvola e l’mRNA
Il cloud computing è sicuramente la tecnologia più conosciuta e impiegata: il 49% la utilizza sistematicamente e solo il 2% dei dirigenti non ne ha mai sentito parlare. Com’è noto, il cloud ha fornito alle organizzazioni una soluzione efficace per consentire ai dipendenti di lavorare da remoto anche nelle fasi più restrittive della pandemia mantenendo comunque un soddisfacente livello di collaborazione e flessibilità.
Ma il potenziale di questa tecnologia non si ferma qui. Grazie al cloud, le aziende hanno a disposizione una strumentazione avanzata, potente e dotata di soluzioni IA e algoritmi di machine learning.
Tra i case study vi sono esempi eccellenti, come la biotech americana Moderna, che ha impiegato uno strumento di drug design realizzato sull’infrastruttura di cloud computing Amazon Web Services. Questa soluzione permette di progettare virtualmente sequenze di mRNA a fronte di specifici obiettivi proteici. Gli impianti di produzione automatizzati convertono poi queste sequenze virtuali in mRNA fisico per effettuare ulteriori esperimenti e avviare gli studi clinici.
Grazie a questa tecnologia cloud based, Moderna ha impiegato solo 42 giorni dalla data di sequenziamento del virus Sars- CoV-2 per consegnare il suo primo lotto di candidati vaccini alla sperimentazione.
“L’innovazione digitale è stata stata accelerata di 10 anni da quel che è successo negli ultimi 18 mesi”.
Manoj Raghunandan, presidente global self care @ Johnson & Johnson
Anche l’intelligenza artificiale (IA) è universalmente conosciuta dai dirigenti delle biofarmaceutiche (a eccezione di un 1% che non sa di cosa si parli). Il 38% degli intervistati da Deloitte utilizza quotidianamente l’IA e due gruppi quasi altrettanto consistenti (31% ognuno) si sono occupati di questa tecnologia per interesse personale o progetti aziendali.
L’IA rappresenta la principale voce di investimento digitale nel settore del drug discovery con l’81% degli intervistati che la annovera tra le priorità attuali e dei prossimi cinque anni. L’area del manufacturing appare invece quella più in ritardo, con solo la metà dei dirigenti che dichiara investimenti già attivi. Altrettanto chiara, comunque sembra anche la volontà di recuperare in fretta: il 75% del campione rivela che sono previsti investimenti per il prossimo quinquennio.
L’IA è una delle tecnologie che ha subito la maggiore accelerazione a causa della pandemia. Anche in questo caso non mancano esempi provenienti dalle big: Novartis ha impiegato l’intelligenza artificiale per prevedere in quali siti di sperimentazione fossero più probabili interruzioni (per carenze di personale, ritardi nelle iscrizioni ecc.) e poter intervenire preventivamente per ridurre il loro impatto sulla durata dei trial. Naturalmente gli algoritmi hanno fornito supporto anche al marketing delle aziende per individuare il giusto mix di canali digitali da utilizzare per coinvolgere i pazienti e guidare le conversioni.
Controllo remoto
I sensori indossabili (“wearable”) sono stati applicati soprattutto nelle fasi di drug development: nella metà dei casi sono stati stanziati fondi appositi per questa tecnologia e altri saranno disponibili nei prossimi anni. In particolare questi strumenti hanno fornito un contributo importante per i (molti) studi clinici interrotti durante la pandemia. In questi casi hanno permesso ai ricercatori un approccio ibrido, con la somministrazione dei farmaci direttamente ai pazienti ma il monitoraggio delle loro condizioni (ad esempio i livelli di glicemia e i di ossigeno) da remoto.
Anche le soluzioni di realtà aumentata e virtuale (AR/VR) sono venute in aiuto quando i siti di produzione operavano con staff minimi a causa delle restrizioni ai movimenti delle persone. In queste situazioni AR/VR sono state impiegate per aiutare il personale in loco a configurare le attrezzature, gestire i processi e risolvere eventuali problemi.
Un futuro hi-tech
Al di là di queste soluzioni più conosciute e consolidate, le aziende del settore biofarmaceutico stanno esplorando anche altre tecnologie più avanzate, come i digital twin, la blockchain e il quantum computing.
Nel 2021, il colosso farmaceutico GlaxoSmithKline ha sperimentato con successo la creazione di un gemello digitale nella produzione dei vaccini. Il digital twin è una copia computerizzata di un oggetto o di un processo (o, a tendere, di una persona) realmente presente anche nel mondo fisico. La copia digitale può essere utilizzata dai ricercatori per analisi e raccolta di informazioni in tempo reale, e anche per elaborare modelli ed effettuare test. Insieme a Siemens e alla società francese di informatica Atos, GSK ha creato un gemello digitale del processo di produzione di una delle particelle adiuvanti un vaccino. Essenzialmente, il gemello è servito come strumento di simulazione del processo di produzione, grazie al quale il team poteva osservare digitalmente cosa accadeva in real time.
Alcune aziende stanno invece sperimentando le reti blockchain a fianco della serializzazione, per tracciare i prodotti e prevenirne la contraffazione. I maggiori investimenti in questa tecnologia si hanno nel campo della supply chain, con un terzo degli intervistati che segnala attività in corso e ben il 43% che li prevede per i prossimi cinque anni. Così è nato, ad esempio, il Clinical supply blockchain working group (Csbwg), un consorzio di stakeholder dell’industria farmaceutica guidato da Pfizer e Biogen, che sta esplorando a largo raggio l’applicazione della blockchain alla filiera di fornitura clinica.
Ultimo per utilizzo, al momento, uno degli strumenti digitali forse più affascinanti, anche se ancora in stadio embrionale di sviluppo: il quantum computer. A differenza dei computer binari attualmente in uso, i modelli quantistici potrebbero simulare con efficacia anche le interazioni estremamente complesse tra le molecole biologiche, espandendo la comprensione dei meccanismi alla base di molte patologie.
“Non c’è dubbio che il futuro sarà digitale”
Ahmed Abo Al Fadl, General Manager Gulf, Healthcare Business di Merck
All’inizio dello scorso anno, Boehringer Ingelheim ha annunciato la sua partnership con Google Quantum AI (Google) per esplorare le potenzialità del calcolo quantistico nella R&S del settore farmaceutico, in particolare per le simulazioni di dinamica molecolare. Per sviluppare questo filone di ricerca, Boehringer Ingelheim ha anche creato un apposito gruppo di lavoro denominato Quantum Lab.
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