I dispositivi medici al femminile sono un altro step verso una medicina più inclusiva e attenta alle esigenze del paziente. Questa una nuova sfida ha mosso i primi passi negli ultimi anni e si sta gradualmente affermando soprattutto a partire dagli Stati Uniti. Ma la strada è ancora lunga da percorrere.
Ora più che mai, abbiamo bisogno di capire l’implicazione delle differenze di genere per le prestazioni dei dispositivi medici sia per le donne che per gli uomini, perché giocano un ruolo sempre più importante per l’assistenza sanitaria.
Health of Women Program Strategic Plan 2019 FDA
Kathleen Sheekey, una dirigente in pensione, abita a Washington e ama viaggiare. Proprio nel corso di un viaggio ha notato quanto quel dolore, che da tempo avvertiva al centro della gamba, tra la coscia e il polpaccio, la stesse limitando. «Passeggiavo e non vedevo l’ora di arrivare alla panchina successiva», ricorda. A mano a mano che il disturbo peggiorava, le accadeva sempre più di frequente di dover ricorrere a farmaci analgesici e fasciature. Finché l’intervento di sostituzione del ginocchio divenne inevitabile. Era il 2007 e lei fu una delle prime pazienti a ricevere una protesi specifica per le donne.
Tenere conto della diversità di genere
A oggi sono numerosi i produttori che realizzano impianti di questo tipo, avvalendosi di progetti assistiti con il computer e delle tecnologie più innovative. L’obiettivo dichiarato è di «ricalcare il più fedelmente possibile l’articolazione del paziente, garantendo una migliore funzionalità, una maggiore durata, una riduzione del rischio di complicazioni». In effetti, qualche differenza tra un ginocchio maschile e uno femminile c’è. Nelle dimensioni, innanzitutto, visto che le ginocchia di una donna sono più piccole rispetto a quelle di un uomo. E poi nell’anatomia, con diversità che riguardano sia l’angolo Q, che si forma tra il muscolo quadricipite e il tendine rotuleo, sia la parte distale del femore, che si articola con la tibia e la rotula.
Ma tenere conto, nella progettazione degli impianti, di queste diversità apporta effettivi benefici al paziente? Il dibattito è in corso, con studi che giungono a conclusioni non sempre univoche.
Una ricerca pubblicata nel 2010 su The Journal of Bone & Joint Surgery e realizzata dagli esperti della Clinica ortopedica di Atene aveva, ad esempio, rilevato che la sporgenza della componente femorale distale nelle protesi standard impiantate alle donne è di circa tre millimetri, il che raddoppierebbe le probabilità di dolore locale due anni dopo l’artroplastica. Per contro, uno studio pubblicato nel 2014 su Knee Surgery & Related Research ed effettuato da ricercatori coreani ha evidenziato che le protesi di genere che riducono la sporgenza femorale non forniscono, in realtà, alcun beneficio misurabile dopo tre-quattro anni dall’intervento. Questi risultati sono stati confermati da una revisione sistematica pubblicata nel 2020 su Sicot-J, la rivista della Société internationale de chirurgie orthopédique et de traumatologie, e condotta da ricercatori francesi. La revisione evidenzia che «ulteriori ricerche devono essere eseguite per definire ulteriormente il ruolo degli impianti specifici per genere».
Dispositivi medici al femminile: ricerche in corso
La protesi di ginocchio “al femminile” è uno degli esempi più noti dei cosiddetti dispositivi di genere. Sono studiati e realizzati ad hoc per le donne, tenendo conto delle esigenze, delle caratteristiche e delle peculiarità che le differenziano dagli uomini. In ambito ortopedico, un’altra articolazione sotto la lente da questo punto di vista è quella dell’anca.
Jama Internal Medicine ha pubblicato nel 2013 uno studio realizzato dai ricercatori del Weill Cornell Medical College di New York su oltre 35mila pazienti operati all’anca in 46 ospedali. Lo studio ha rilevato che, dopo tre anni, le donne avevano quasi il 30% di probabilità in più rispetto agli uomini di andare incontro a una revisione dell’intervento. Questo soprattutto a causa di lussazioni e di usura della protesi. «Le donne hanno un’anatomia pelvica e dell’anca diversa da quella degli uomini, oltre a presentare una maggiore perdita ossea», ha evidenziato Art Sedrakyan, coautore dello studio. «Tuttavia, poiché il rischio complessivo di recidiva è rimasto esiguo, è prematuro sostenere che abbiano bisogno di protesi specifiche». A oggi non è stata ancora detta l’ultima parola e ulteriori ricerche sono in corso.
Un cuore femminile
Nemah Kahala, una donna con malattia cardiaca avanzata, è giunta nel 2015 all’Ucla Health Center di Los Angeles. All’arrivo era davvero in pessime condizioni. Il suo cuore pompava poco più di un rivolo di sangue e lei aveva bisogno con urgenza di un trapianto. Di solito i pazienti in queste condizioni vengono dotati, per alcune settimane, di un ventricular assist device. Si tratta di una pompa meccanica nota come cuore artificiale, che sostituisce la funzione ventricolare con l’obiettivo di aumentare la quantità di sangue in circolo in attesa che un organo diventi disponibile (“ponte” verso il trapianto).
Ma nel caso di Nemah c’era un problema. La donna era di corporatura minuta e di bassa statura e all’epoca l’unico dispositivo approvato dall’Fda (quello da 70 centimetri cubi) era troppo grande per lei. Così i medici dovettero avanzare una richiesta speciale alle autorità competenti per poter utilizzare un cuore più piccolo, da 50 centimetri cubi. La deroga fu loro concessa e il percorso terapeutico poté proseguire.
Il device standard aveva ricevuto il via libera dall’agenzia statunitense nel 2004. Invece quello di dimensioni più contenute, adatto alla maggior parte delle donne, è approdato sul mercato molti anni dopo. L’ente regolatorio l’ha approvato solo nel marzo del 2020. Un’attesa di 16 anni, probabilmente motivata dal fatto che le persone che necessitano di un cuore artificiale sono nell’80% dei casi uomini e nel 20% donne. Il dispositivo da 70 centimetri cubi viene nell’88% dei casi impiantato ai primi e solo nel 12% alle seconde.
Più sperimentazioni sulle donne
Agli aspetti riguardanti l’idoneità e la funzionalità dei dispositivi medici al femminile si sommano poi quelli correlati alla sicurezza. Sempre nel 2015 e sempre a proposito di “cuore artificiale” è stato pubblicato su The Journal of heart and lung transplantation uno studio condotto dagli esperti dell’Emory University School of Medicine di Atlanta, in Georgia. Ebbene, secondo i ricercatori, le donne che utilizzano il dispositivo di assistenza ventricolare sinistra a flusso continuo in attesa del trapianto sarebbero soggette a maggiori rischi di ictus rispetto agli uomini. «Sono necessarie ulteriori ricerche per comprendere appieno queste differenze e se le strategie di gestione dei dispositivi debbano essere adattate in base al genere», concludono gli autori.
Qualche problema di sicurezza pare esserci anche sul fronte dei materiali. Eclatante l’esempio degli impianti a rete (mesh), spesso realizzati in polipropilene. Vengono impiegati in chirurgia uroginecologica per il trattamento transvaginale dell’incontinenza e del prolasso degli organi pelvici nelle donne. Già tra il 2008 e il 2011 sia la Food and drug administration che Health Canada, l’agenzia governativa canadese, avevano emesso vari avvertimenti dopo che migliaia di donne avevano riportato dolori, infezioni, sanguinamenti, problemi urinari, danni ai nervi e ai tessuti in seguito all’impianto. Negli anni seguenti molti prodotti di questo tipo furono ritirati dal mercato e alcuni casi finirono in tribunale. Nel 2017 i ricercatori del Center for evidence-based medicine dell’Università di Oxford hanno pubblicato uno studio sul British Medical Journal. Hanno rilevato che tali reti non erano state sottoposte a studi clinici sulle donne prima di essere approvate.
Il problema era ed è che, analogamente a quanto avviene per i farmaci, il numero di donne incluse nelle sperimentazioni sui dispositivi è molto esiguo.
Protesi mammarie e contraccettivi impiantabili
Un paio d’anni più tardi, nel 2019, l’International consortium of investigative journalists è partito dalla constatazione che le donne tollerano meno degli uomini l’impianto di device contenenti metallo. Ha realizzato dunque un’indagine sulla safety dei dispositivi orientata al genere. In particolare, i giornalisti hanno analizzato il Manufacturer and user facility device experience (Maude). Questo è il registro della Food and drug administration (Fda) dove vengono annotate le segnalazioni di eventi avversi riguardanti questi prodotti. Sono stati presi in esame oltre 340mila casi di lesioni o decessi. Di questi, il 67% riguardava le donne e il 33% gli uomini: una sproporzione che merita di essere approfondita.
Lo sostiene anche la democratica Rosa DeLauro, che ha invitato l’ente regolatorio a «rafforzare la supervisione dei dispositivi medici in un’ottica di genere». DeLauro ha prestato particolare attenzione alla sicurezza dei device femminili. Tra questi ci sono per esempio le protesi mammarie testurizzate, accusate di essere correlate all’insorgenza del linfoma. C’è anche Essure, un contraccettivo impiantabile permanente recentemente ritirato dal mercato con l’accusa di provocare dolore, emorragie, perforazioni delle pareti uterine e delle tube di Falloppio. In seguito a queste sollecitazioni, l’agenzia ha assicurato che avrebbe intrapreso specifiche azioni, tra cui audizioni pubbliche e nuovi programmi di ricerca, per valutare e monitorare l’impiego di dispositivi nelle donne.
Verso i dispositivi di genere
«Avere informazioni sul sesso dei pazienti è molto importante», ha confermato Diana Zuckerman, presidente del National center for health research di Washington ed esperta di medical device, «perché alcuni prodotti differiscono in termini di sicurezza tra uomini e donne». Nell’aprile del 2020 il Center for devices and radiological health dell’Fda ha avviato il progetto Health of women per promuovere l’innovazione dei dispositivi “al femminile”. «Ogni persona ha un sesso e ogni cellula è sessuata», ha commentato il direttore dell’iniziativa Terri Cornelison. «Esplorare e comprendere le prestazioni dei dispositivi a seconda dei generi è fondamentale per proteggere la salute delle donne».
Ma le storie di Kathleen Sheekey e Nemah Kahala come sono finite? La prima, dopo l’intervento al ginocchio, è tornata a camminare senza dolore, a salire e scendere le scale, perfino a giocare a tennis. La seconda ha ricevuto da un donatore un cuore nuovo di zecca, che ancora oggi le batte nel petto.
E in Italia?
Sul fronte dei dispositivi medici “in rosa”, pare che qualcosa si stia muovendo anche nel nostro Paese. Il Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere, adottato con il decreto del 13 giugno 2019, ha dedicato un breve paragrafo al tema. “Un utilizzo dei dispositivi medici che tenga conto delle differenze anatomico-funzionali legate al genere non è ancora sufficientemente considerato”, si legge nel documento, “pur essendo stato riconosciuto rilevante in ambito sanitario”.
Un’importanza ribadita anche da Fernanda Gellona, direttore generale di Confindustria dispositivi medici:
Dare maggiore centralità al paziente, individuando le peculiarità di genere, è ritenuto fondamentale dalle aziende di medical device, che sono da sempre orientate a una personalizzazione dei dispositivi. Oggi più che mai risulta importante, anzi indispensabile, tenere conto delle numerose differenze esistenti tra uomini e donne per una maggiore appropriatezza delle cure e una migliore allocazione delle risorse.
Insomma, sulla carta i presupposti per andare nella direzione dei “dispositivi di genere” sembrerebbero esserci tutti. Ora occorre passare dalla teoria alla pratica.