Le biotecnologie abbracciano settori vasti e complessi, e comportano interazioni con il Dna. Ecco perché sono coinvolte in ambiti che si prestano al dibattito, anche etico, e alla polemica. La sfida oggi è cambiare l’approccio alla comunicazione delle biotecnologie in modo da raccontarne l’impatto positivo sulla società in termini di qualità e di sicurezza.
«Gli Ogm hanno rivoluzionato l’agrofood». Esordisce così, nella nostra conversazione, Maria Luisa Nolli, cofounder e Ceo di NCNbio e membro del board di Assobiotec. Partendo proprio dal tema più spinoso, che da anni tiene banco in molti consessi e continua a essere uno dei nodi irrisolti dei nostri contraddittori tempi. «Quella rivoluzione è stata, in parte, non compresa, ma oggi abbiamo una carta in più: quella di tecnologie sempre più raffinate, del gene editing, che possono migliorare sempre di più la nostra agricoltura e rendersi più comprensibili dal grande pubblico. In passato è stato commesso un errore di comunicazione delle biotecnologie proprio verso il fruitore dei prodotti biotech, oggi al centro delle iniziative delle associazioni di impresa e scientifiche».
«Siamo orientati verso un approccio che fa leva sulla presenza intrinseca della scienza nelle biotecnologie, che devono comunicare ai cittadini costantemente e nella maniera più appropriata, per evitare che passino messaggi ascientifici, superficiali e deleteri».
Che tipo di relazione lega la reputation aziendale costruita attraverso strategie di comunicazione e quella che esprime il sentiment dei cittadini, che usano chiavi di lettura diverse?
Oggi la scienza è nei discorsi di tutti, anche perché attraversa tutti i settori delle biotecnologie. In primis quello della salute, che ci vede oggi alle prese con questa pandemia. In essa è la relazione fra questi due aspetti.
Da un lato abbiamo la comunicazione aziendale, ad esempio quella che è stata prodotta dalle aziende che hanno sviluppato i vaccini per Covid-19; dall’altro la comunicazione verso il pubblico, che spiega perché i vaccini sono sicuri. E cioè perché, malgrado la notevole accelerazione impressa al loro sviluppo, sono supportati da una scienza d’eccellenza e da un regolatorio che sorveglia tutto il percorso dello sviluppo. Ecco, il link è la scienza.
È possibile incentivare il dibattito scientifico minimizzando la confusione che ne deriva?
I referenti della comunicazione nei confronti della comunità, non solo scientifica, ma sociale nel suo complesso, dovrebbero avere una visione comune. Molto spesso, invece, si assiste a un certo protagonismo individuale. Questo però non è positivo ai fini della trasparenza. L’analisi individualistica bypassa il confronto, che rappresenta un momento cardine per la scienza, perché evita che si imbocchino percorsi inefficaci.
Alla conclusione dei tavoli più o meno formali, dovrebbe emergere una visione univoca e non le singole individualità. Vede, noi siamo per natura un Paese di forti individualità che hanno bisogno di un fil rouge che le unisca.
In futuro avremo sempre più bisogno di collaborazione dei cittadini fra loro e con la scienza, in particolare con le biotecnologie. Come possono le aziende facilitare questa transizione?
In primis, occupandosi delle malattie infettive, che negli ultimi anni sono state trascurate nelle pipeline dei grandi progetti aziendali. Poi, continuando a impegnarsi nella comunicazione, perché su questo versante l’asticella continua ad alzarsi. Guardi la situazione attuale: siamo nel mezzo di una pandemia, afflitti da problemi ambientali di portata enorme. In questo contesto, la sfida è quella di comunicare l’impatto positivo del biotech sulla società, in termini di miglioramento della qualità degli alimenti, dell’ambiente e della salute, associato a una sicurezza sempre maggiore.
Non a caso, fra gli obiettivi di questi ultimi anni di EuropaBio, nella quale io rappresento Assobiotec, c’è anche il miglioramento della percezione del biotech nella società. E questo tema è uno degli obiettivi della settimana europea delle biotecnologie, che, promossa da Assobiotec, viene organizzata ogni anno in tutti i Paesi europei. Anche in questo, la soluzione è puntare sulla scienza, per i farmaci, così come per l’alimentazione e l’ambiente.
Genenta Science ha dichiarato la sua intenzione di partecipare a un contesto più internazionale. È arrivato il momento del salto di qualità per le biotech italiane?
Sicuramente Genenta, supportata da tutto il gruppo di ricerca che fa capo al professor Naldini, è una candidata a questo salto. Storicamente, se lei osserva, questi salti sono sempre quantici. Fra il 2013 e il 2014 abbiamo avuto importanti merging e quotazioni in Borsa di aziende che operavano nello sviluppo di small molecules scoperte con processi biotech e quindi considerate in questo settore. Oggi si parla di un salto quantico per aziende che fanno gene therapy che, insieme alle Car-T e all’immunoterapia dei tumori, sta arrivando sul mercato non solo con i grandi nomi, ma anche con aziende di recente costituzione che derivano da costole dell’accademia. Genenta è una di queste, tanto che ha dichiarato pubblicamente che, con la riorganizzazione del management, punta alla quotazione al Nasdaq.
Poi ci sono entità di eccellenza di ricerca e sviluppo uniche nel genere, come il gruppo del professor Franco Locatelli all’Ospedale Bambino Gesù, che sta ottenendo grandi successi nella costruzione di nuovi vettori Car-T per un’immunoterapia sempre più sicura. Un esempio straordinario, un modello per l’evoluzione del progetto di ricerca dall’idea iniziale fino al letto del paziente.
Sono molti gli elementi accademici di ricerca e sviluppo che potrebbero dare vita a spin off di successo…
Come per l’hub del San Raffaele, da cui è nata Genenta, sono parecchie le realtà che potrebbero diventare aziende. Queste realtà sono eccellenze, ma a macchia di leopardo in Italia: come emerge da una survey che stiamo conducendo in NCNbio, le imprese biotech da noi sono eccellenti in qualità, meno in numerosità. Ma non mi sento di criticare quest’ultimo aspetto, perché il livello di qualità è davvero molto elevato.
Il coinvolgimento diretto del nostro territorio può contribuire al controllo della vaccine hesitancy?
Qui torniamo al concetto di percezione. In Europa, ma soprattutto in Italia, abbiamo un ente regolatorio severo in maniera direttamente proporzionale alla qualità dei farmaci che si vogliono mettere prima in sperimentazione clinica e poi in commercio.
Oggi c’è una tale sicurezza nel controllo di qualità dei prodotti che escono dalle officine che è veramente impensabile e sarebbe poco appropriato dire che non sono sicuri. Naturalmente, come per tutti i farmaci, possono esserci degli effetti indesiderati, ma anche sul loro contenimento c’è grande impegno e responsabilità, sia da parte delle aziende che del regolatore. Dobbiamo continuamente comunicare questo aspetto.
D’altra parte, se il nostro sistema sanitario è ritenuto da tutti uno dei migliori al mondo, è anche per la sicurezza che garantisce a tutta la filiera del farmaco.
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