Rwe, nuovo paradigma per la ricerca medica?

La Real word può rappresentare un importante punto di svolta in tema di protezione della salute pubblica ma deve essere integrata in un sistema di raccolta unificato a livello nazionale

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In questi ultimi anni si è aperta una dialettica importante in relazione alla cosiddetta “real world evidence”, o Rwe. Se nel passato, anche recente, si enfatizzavano molto i risultati ottenuti nell’ultimo step degli studi registrativi, ecco che oggi l’attenzione si sta spostando sempre di più verso i dati che provengono dalla fase post marketing, grazie alla possibilità di raccogliere in maniera precisa come mai prima d’ora le informazioni relative all’efficacia e alla tollerabilità dei farmaci, una volta immessi sul mercato e utilizzati su tutti i pazienti non eleggibili nelle coorti delle varie fasi di sperimentazione.
Ai nostri occhi (di oggi), sembra persino scontato che le cose debbano per forza andare in questo modo: negli studi registrativi le variabili che possono influire sui dati di efficacia e sicurezza devono essere ridotte al minimo, se si vogliono avere dati quanto più possibile neutri ed effettivamente paragonabili con quelli delle coorti degli altri bracci di sperimentazione, selezionati nel medesimo modo come gruppo di controllo.

Un mondo che diventa sempre più veloce

Questo tipo di impostazione poteva essere adatto al recente passato, ma allo stato attuale sta mostrando la corda per una serie complessa di motivi. In primo luogo, come l’emergenza Covid ha insegnato molto bene, stiamo assistendo a una progressiva (ma cercata e anche auspicata) riduzione dei tempi per la messa in commercio dei nuovi farmaci. Le discipline traslazionali, il drug design, la sperimentazione in silico stanno rapidamente velocizzando i processi produttivi, consentendo di economizzare tempi e risorse per la messa a punto di nuovi principi attivi. Ciò determina una maggiore pressione verso gli enti regolatori, con tutte le difficoltà del caso: il report dell’Alliance for regenerative medicine ha evidenziato a fine 2023 un problema di mancanza di forza lavoro (all’interno degli enti regolatori) nel settore delle terapie geniche e cellulari, causato dal divario crescente di competenze tra i dipendenti delle aziende farmaceutiche (o dei centri di ricerca) che lavorano nel settore e i dipendenti degli enti regolatori. Si tratta di un problema che ha queste dimensioni: nel 2023 il 58% dei trial clinici era dedicato ai farmaci a bersaglio molecolare, quindi adatti per trattare esigenze terapeutiche differenti. Nel giro di soli cinque anni siamo passati da 1.000 clinical trial a 1.600 clinical trial. Non è un caso che Ema e Fda, oggi, siano vissuti come un “collo di bottiglia” in relazione alla possibilità di immettere nuovi farmaci sul mercato. A questo scenario quantitativo dobbiamo aggiungere quello qualitativo rappresentato dalle pressioni delle associazioni pazienti, che chiedono lo snellimento di alcune procedure di approvazione da parte degli enti regolatori (nello specifico italiano, l’Aifa), specialmente se si tratta di duplicare dati già ottenuti per conto di Ema presso i medesimi centri deputati alla sperimentazione a livello europeo.

La punta dell’iceberg

Come possiamo vedere, ci troviamo di fronte a una situazione complessa che possiede alcune criticità specifiche. Da una parte, infatti, ci si rende conto che gli studi registrativi rimangono sostanzialmente disegnati in modo da effettuare valutazioni sulle singole patologie anche se il bersaglio terapeutico potrebbe essere comune a una intera famiglia di malattie (da questo punto di vista, un esempio chiarissimo sono le cosiddette malattie eosinofilo correlate che, infatti, possono essere trattate con il medesimo principio attivo a dosaggi differenti a seconda della gravità del disturbo). E, sempre seguendo la stessa logica, questi stessi studi registrativi hanno limiti intrinseci perché sono stati da sempre pensati come utili a dimostrare sicurezza ed efficacia senza che vi siano variabili in grado di alterare in qualsivoglia modo il risultato, laddove l’alterazione del risultato può essere causata da interazioni con farmaci, malattie pregresse, disturbi comuni nella popolazione generale (dislipidemie, anemie ) ecc. Insomma, il rischio è quello di arruolare pazienti che, paradossalmente, al di là della patologia da trattare, sono sani. I dati OsMED, invece, raccontano una realtà ben diversa: il 30% degli italiani over 65 prende più di 10 farmaci al giorno. Il 50% ne assume tra cinque e nove. Almeno due milioni di italiani sono esposti a interazioni farmacologiche potenzialmente gravi e un altro milione assume terapie non appropriate. Ecco che, in uno scenario del genere, dobbiamo far “calare” nuove terapie, che si devono inserire in una situazione di difficile gestione dei pazienti politrattati e non sempre controllati in maniera adeguata.

La soluzione è nei big data?

La situazione qui descritta ci mette dunque nella situazione di dover superare l’impasse in maniera che sia assolutamente rispettosa delle esigenze di salute e sicurezza, ma anche del legittimo desiderio di accedere a terapie che, lo vediamo oggi, stanno sensibilmente rivoluzionando il trattamento di tante patologie che fino a pochi anni fa erano destinate persino a prognosi infauste e in tempi non lunghi. Ma come possiamo superare il collo di bottiglia? Da questo punto di vista ci può venire in aiuto la digitalizzazione sanitaria, unitamente a una auspicabile e trasparente collaborazione tra pubblico e privato. In che modo? La progressiva informatizzazione dei dati sanitari consentirà di avere una mole enorme di dati da cui può essere possibile attingere tutte le informazioni utili per i controlli post marketing. I programmi di supporto digitale per i pazienti, i fascicoli sanitari elettronici, i device indossabili possono potenzialmente diventare strumenti adatti al monitoraggio dell’efficacia e della sicurezza delle nuove terapie, con una precisione inedita nella storia della medicina. Le analisi dei dati sono oggi più semplici grazie all’implementazione di sistemi di AI, machine learning e analisi predittiva. Il tutto senza trascurare il problema dell’anonimizzazione dei dati, che rimane centrale per garantire la privacy dei pazienti verso coloro che dovranno maneggiare il dato sanitario nel rispetto dei diritti del singolo.
Uno degli aspetti che maggiormente può e deve farci riflettere sulla Rwe come futuro della ricerca scientifica è quello inerente agli investimenti che si stanno facendo per elaborare sistemi in grado di fornire soluzioni affidabili. Il tasso di crescita annuo di questi sistemi è stimato attorno al 12,3%. Oggi siamo in un mercato globale di 16 miliardi di dollari, che potrebbero – stando agli analisti – diventare 36 miliardi nel 2030. Praticamente dopodomani. Le startup, in questo settore, si stanno moltiplicando e il mercato si va segmentando in quattro grandi gruppi: quello dei “Fornitori e aggregatori”, degli “AI Analytics provider”, dei “Platform provider” e delle “Contract research Organization”.

Ricadute positive per i pazienti

I motivi per cui una Rwe ben gestita può diventare una risorsa decisiva per il benessere dei pazienti vanno cercati proprio nelle pieghe degli scenari che abbiamo appena descritto e, soprattutto, nell’importanza della gestione dei big data sanitari. In un mondo analogico, il monitoraggio della fase post marketing richiedeva tempi lunghi perché dovevano tenere conto delle segnalazioni degli eventi avversi presso gli appositi registri. Attraverso una corretta gestione dei dati, oggi può diventare più facile identificare i sottogruppi maggiormente a rischio, così come quelli che potenzialmente possono ricevere maggiore beneficio. L’evidenza degli effetti collaterali può emergere con maggiore velocità, migliorando l’azione di supervisione, controllo e perfezionando anche i possibili interventi medici a gestione dell’effetto avverso. Allo stesso modo possono evidenziarsi nuove indicazioni terapeutiche, perché è l’esperienza clinica a definire se e come – per meccanismi che andranno poi studiati – una molecola può intervenire positivamente anche su patologie per cui non era stata messa a punto (in definitiva le indicazioni off label). Tutto questo, però, ha bisogno di essere pensato in un’ottica strategica, organica e di governance unificata.

Ripensare al modello dei big data

Se indirizziamo lo sguardo verso la nostra realtà nazionale, non possiamo fare a meno di porci ancora una volta il problema della governance del dato informatico. Sono stati fatti dei passi in avanti rispetto alla situazione pre-pandemica, perché oggi siamo comunque indirizzati verso una maggiore interoperabilità dei sistemi e nella direzione di una centralizzazione del dato sanitario. Passi nella giusta direzione sono stati fatti attraverso il progetto di Health big data, 55 milioni di euro messi a disposizione dal MEF per interconnettere i 51 Irccs del territorio nazionale nei settori cadiologia, cancro, neuroscienze e riabilitazione, rete pediatrica (con il coordinamento del ministero della Salute e in collaborazione con il Politecnico di Milano, la Fondazione Politecnico di Milano e l’Istituto nazionale di fisica nucleare). Si tratta di un passo in avanti molto importante perché nessuna Rwe può prescindere da ciò che ci sta a monte, ovvero l’acquisizione del dato, la sua protezione, la sua corretta interpretazione per estrapolare ciò che è realmente interessante da ciò che è soltanto “rumore di fondo”, destinato a confondere e, quindi a rallentare il processo.

Auspicio finale

La Rwe può rappresentare un importante punto di svolta per ciò che riguarda le esigenze di protezione della salute pubblica. È probabilmente destinata a diventare la chiave per la definizione dei criteri di appropriatezza terapeutica non solo in ambiente ospedaliero ma, data la volontà di trasferire le cronicità sul territorio, anche per la medicina di base. Ciò che bisogna evitare, per mantenere la centralità di istituzioni terze e di controllo, è che i dati Rwe vengano raccolti in maniera parziale all’interno di singoli attività di ricerca, come sempre più spesso accade, magari attraverso l’utilizzo compassionevole all’interno dei singoli progetti. Non si discute certo il valore di questi dati raccolti, ma se confiniamo al Rwe a questo genere di progetti, finiamo con lo sminuirne le potenzialità. La Rwe, invece, dovrebbe essere intesa come combinazione sinergica tra differenti applicazioni di tecnologie che possono così dimostrare una utilità individuale e, insieme, universale, in grado di aiutare i processi decisionali ad ampio respiro e definire i criteri per una medicina più efficace, personalizzata e, nel contempo, più rispettosa dell’imprescindibile criterio della sua sostenibilità.