COVID, l’inizio di una nuova era: la lecture di Giuseppe Remuzzi al Neuromed

Nella lecture di Giuseppe Remuzzi all'IRCCS Neuromed un'analisi degli eventi correlati alla diffusione di COVID-19 e uno sguardo ad un futuro nel quale niente sarà più come prima.

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Remuzzi

Il Direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano Giuseppe Remuzzi ha tenuto oggi una lecture presso l’IRCCS Neuromed sulla pandemia COVID-19.

L’evento è stato organizzato in memoria dello scienziato belga Marc Verstraete, che è stato protagonista nello sviluppo della terapia delle malattie cardio e cerebrovascolari.

Remuzzi su COVID: una catastrofe evitabile

La lezione magistrale di Giuseppe Remuzzi COVID-19: perché è successo e come evitare che possa succedere di nuovo è stata una riflessione su quanto avvenuto negli ultimi 2 anni.

Una lettura attenta e senza pregiudizi degli eventi che si sono inanellati allo scopo di trarne indicazioni utili per il futuro. Un’analisi realizzata da uno dei protagonisti più significativi dello scenario scientifico italiano e mondiale.

Sappiamo che tutto è cominciato in Cina e molto si è dibattuto sulle modalità. Ma è legittimo, a distanza di tempo, domandarsi se questa tragedia si sarebbe potuta evitare.

Per rispondere a questa domanda dobbiamo comprendere il contesto cinese. In Cina, a dispetto di quanto si sta verificando in Occidente da ormai decenni, la scienza gode di ottima reputazione.

Le illazioni, più o meno fondate, su quanto accaduto in questa primissima fase del fenomeno COVID-19 non hanno permesso di cogliere un punto fondamentale. E cioè lo sfasamento fra le due diverse realtà al centro della vicenda. Quella politica, che ha negato l’evidenza fino a quando le è stato possibile, e quella scientifica, che ha reagito prontamente e con grande capacità e spirito di sacrificio.

Non abbiamo creduto agli scienziati, perché erano cinesi

Il 30 dicembre 2019 il medico oculista Li Wenliang scriveva sulla app di messaggistica WeChat dei casi di polmoniti atipiche che aveva osservato nel suo ospedale. Come lui, molti altri medici e scienziati hanno divulgato notizie allarmanti sul fenomeno.

Li Wenliang è stato arrestato, costretto a ritrattare, a dire di essersi sbagliato. Poi, come in un romanzo dal finale amaro e beffardo, ha contratto quella stessa “inesistente” infezione e ne è morto.

L’isolamento di Wuhan è cominciato solo il 23 gennaio. Perché questo ritardo?

Perché anche la WHO non ha colto i segnali d’allarme lanciati dal mondo medico cinese? Perché malgrado gli insistenti moniti lanciati dalla comunità scientifica cinese, per molto tempo ha continuato a negare la possibilità di trasmissione da uomo a uomo?

In gran parte, sostiene Remuzzi, per una questione di pregiudizio nei confronti di una cultura, di una comunità scientifica (quella cinese) a cui evidentemente non è stata riconosciuta credibilità.

Eppure, si sarebbero potute salvare milioni di vittime. La prima ondata avrebbe potuto essere evitata.

Già il 24 gennaio si conosceva molto del virus…

Era già tutto scritto in un articolo pubblicato il 24 gennaio su The Lancet: “Clinical features of patients infected with 2019 novel coronavirus in Wuhan, China”. Ma in Occidente nessuno ha creduto a queste informazioni.

Avremmo dovuto farci qualche domanda di fronte alle informazioni pubblicate dal team cinese protagonista dello studio. Avremmo potuto metterci al lavoro per allestire le misure di distanziamento, arricchire i magazzini di scorte di DPI, progettare sistemi per arginare la diffusione del microorganismo…

Ma, ancora una volta, non abbiamo preso sul serio i moniti e le indicazioni della comunità scientifica cinese.

Poi l’inizio della crisi anche in Italia. La partita Atalanta-Valencia, lo storico 4-1 della squadra di Bergamo, gli abbracci increduli e gioiosi…

E le notti, interminabili, negli ospedali traboccanti di pazienti in condizioni disperate. Facendo i conti con l’impossibilità di garantire assistenza a tutti coloro che ne avevano bisogno.

E la diffusione, inarrestabile, del contagio.

Nefrologia e coronavirus: ma che c’azzecca?

Perché i nefrologi dovrebbero occuparsi di coronavirus? Si è posto questa domanda un noto scienziato nel corso di un dibattito nelle fasi più concitate della pandemia.

Remuzzi racconta, da nefrologo, di essere stato colpito da questa obiezione.

Probabilmente l’esperto, citato senza farne il nome, non sarà stato l’unico a mettere in dubbio le competenze degli specialisti di malattie renali nell’occuparsi di COVID.

Ma il link fra i due aspetti della vicenda c’è, eccome. Anzi, di collegamenti ce ne sono parecchi.

Il primo, e forse più importante, è rappresentato da ACE-2, elemento del sistema renina-angiotensina, che regola la funzione renale e la pressione arteriosa e possiede attività proinfiammatoria e protrombotica. Un meccanismo, questo, che è stato studiato in prima battuta dai nefrologi.

La correlazione fra nefrologia e COVID sembra anche essere dimostrata dall’azione della bromexina, un inibitore delle proteasi contenuto anche in alcuni farmaci mucolitici, nel miglioramento del clinical outcome dei pazienti.

Il legame è stato poi ulteriormente rafforzato dalla rilevazione della presenza significativa del virus nel glomerulo renale.

Altri elementi? Il complemento, uno dei meccanismi di difesa più antichi nell’evoluzione umana, è coinvolto in numerose malattie dei reni, fra cui alcune glomerulopatie. Eculizumab, uno dei farmaci impiegati per il trattamento di questi disturbi, ha evidenziato un’azione di miglioramento della funzione respiratoria e di riduzione della mortalità e delle complicanze croniche nei sopravvissuti.

Le evidenze raccolte non sono sufficienti a legittimare l’intervento a buon diritto dei nefrologi nei dibattiti sull’infezione da SARS-CoV-2? Remuzzi raccomanda agli scettici irriducibili di leggere l’articolo pubblicato su Science nell’aprile 2020 A rampage through the body a firma Wadman et al.

E’ l’iperinfiammazione a fare precipitare il quadro clinico

Nessun dubbio sul fatto che fra le persone che soffrono di patologie renali croniche la mortalità è più elevata. La CKD è un fattore di rischio di gran lunga superiore a tutti gli altri per morte da COVID-19.

La morte per COVID è in realtà dovuta ad uno stato di iperinfiammazione. Dunque, è comprensibile che molta parte dell’impegno della ricerca si sia concentrato nello sforzo di identificare l’antinfiammatorio che spegnesse la catena di eventi disastrosa alla base del collasso del quadro clinico.

E ora cosa succede…

Le conclusioni di Remuzzi partono da quello che è il pilastro attuale della strategia anti COVID, il vaccino.

Per la rapidità di ottenimento e l’inimmaginabile impatto nella riduzione del numero di morti, la vaccinazione rappresenta uno dei più grandi successi della storia della farmacologia. La sua riuscita non è il risultato, ricorda il Direttore del Mario Negri, dell’accelerazione impropria (che impropria non è stata) degli step valutativi. Ma dipende soprattutto dall’ingente impegno economico dei Governi, che hanno messo a disposizione cifre da capogiro per il suo sviluppo.

Che lo vogliamo o no, SARS-CoV-2 ha segnato una linea di demarcazione nella storia dell’umanità.

La polemica inconsistente sulle competenze dei nefrologi che si occupano di COVID è uno specchio puntato su un ordinamento crollato. Le barriere che separavano così efficacemente le diverse branche della medicina sono cadute. Oggi si deve essere preparati a lavorare in condizioni di emergenza vera, come elementi di una squadra in cui è sempre più difficile stabilire i confini nell’attribuzione delle funzioni.

Ridefinire gli equilibri negli ecosistemi

Su un fronte più globale, i cambiamenti climatici potrebbero portare ad un incremento drammatico dei casi di spillover. Prevenire future pandemie, ammonisce Remuzzi, significa soprattutto ridefinire gli equilibri negli ecosistemi.

Come prepararci all’emergenza che ormai sembra scontata? Di pandemic preparedness ha scritto Richard Horton nell’articolo pubblicato il mese scorso su The Lancet.

Al di là delle strategie da implementare sul territorio e all’interno delle strutture sanitarie, delle misure di distanziamento e del rafforzamento delle supply chain, ci si prepara cercando di essere organismi sani.

E imparando a guardare alla salute in una dimensione più globale. Un concetto, quello del One Health, che ormai sembra essere diventato uno standard trasversale per approcciare i problemi di salute individuale e pubblica.

COVID non è un evento, ma l’inizio di una nuova era.