AI e trasformazione del lavoro

L’adozione dell’intelligenza artificiale sta rivoluzionando l’organizzazione delle aziende e gli ambienti di lavoro ma senza il temuto impatto sull'occupazione

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Quando nel 2016 Geoffrey Hinton, uno dei pionieri del deep learning, dichiarò che entro cinque anni l’intelligenza artificiale (AI) avrebbe sostituito i radiologi, sollevò molte preoccupazioni sul futuro dei lavoratori del settore sanitario. Tuttavia, a quasi dieci anni di distanza da quella previsione, la realtà racconta una storia un po’ diversa (per il sollievo dei radiologi, la cui domanda è in realtà in costante aumento).
Comunque, sebbene in modo meno rapido e più complesso del previsto, l’AI sta effettivamente ridisegnando processi produttivi, ruoli professionali e competenze richieste anche nell’ambito della salute, continuando ad alimentare le preoccupazioni per l’impatto sull’occupazione.
Attualmente, secondo il World economic forum, il 47% delle attività lavorative è svolto da esseri umani, il 22% è automatizzato e il restante 30% deriva dalla combinazione tra uomo e tecnologia. Entro il 2030, il 33% delle attività sarà interamente automatizzato, mentre il 34% sarà frutto dell’interazione tra esseri umani e AI.

Inoltre, i dati del Wef evidenziano che il 60% delle aziende globali ritiene che l’espansione digitale sarà il principale fattore di trasformazione per il proprio settore. Al momento, il 70% delle nuove scoperte farmaceutiche deriva da ricerche interdisciplinari e il 40% delle aziende farmaceutiche globali ha già stretto partnership con aziende di AI e big data per ottimizzare le attività di R&D. I trial clinici che combinano intelligenza artificiale, biotecnologie e bioinformatica, in particolare, crescono a un ritmo del 30% all’anno. Inoltre, l’86% delle aziende del settore ritiene che le tecnologie AI trasformeranno radicalmente i processi di sviluppo farmaceutico entro il 2030.



Formazione e reskilling

Con l’adozione dell’AI, il settore farmaceutico richiederà figure professionali con nuove competenze. La digitalizzazione e l’analisi avanzata dei dati sono ormai imprescindibili per chi lavora in ricerca, produzione e controllo qualità. Il reskilling dei lavoratori diventa quindi una priorità per le aziende.
Secondo il World economic forum, il 44% delle competenze richieste oggi sarà rivoluzionato nei prossimi cinque anni, con un’urgente necessità di formazione e aggiornamento per il 60% della forza lavoro.

In questo contesto non stupisce che i lavori previsti in più rapida crescita comprendano specialisti di big data, ingegneri fintech, esperti di AI e di machine learning, e sviluppatori di software. Secondo il Bureau of labor statistics degli Stati Uniti, tra le professioni in maggiore crescita, quella che garantirà i maggiori compensi sarà il ruolo di Computer and information research scientist, con uno stipendio medio stimato in 145.000 dollari all’anno.
Le aziende farmaceutiche devono quindi affrontare una doppia sfida: da un lato, ottimizzare i processi con l’AI, dall’altro garantire un adeguato piano di formazione e riconversione professionale per evitare che l’automazione si traduca in una perdita di posti di lavoro.

Differenze generazionali

E i lavoratori cosa ne pensano? Le aspettative nei confronti dell’AI e del suo impatto sul mondo del lavoro variano notevolmente a seconda dell’età. Un sondaggio di MakingLife su oltre 100 giovani della Generazione Z o Millennial in formazione nel settore delle life science, rivela che il 71% di loro riconosce l’influenza significativa dell’AI sul mondo del lavoro, ma solo il 13% immagina una trasformazione radicale dei ruoli esistenti. Nessuno degli intervistati, comunque, ritiene che l’innovazione tecnologica avrà un impatto trascurabile sul contesto aziendale.

Nonostante questa consapevolezza, l’innovazione tecnologica non è considerata una priorità assoluta: solo il 30% del campione considera essenziale lavorare per un’azienda che investe fortemente in questo campo. Curiosamente, è proprio la Gen Z quella più preoccupata di rimanere indietro nell’apprendimento delle skill necessarie per utilizzarla al meglio. Secondo una ricerca di Censuswide per LinkedIn che ha coinvolto quasi 30mila persone, questo timore è inversamente proporzionale all’età: sotto i 28 anni, il 29% degli intervistati si dice preoccupato, contro il 22% dei Millennial, il 16% della Gen Y e il 15% dei Baby boomer.
Analogamente, il 44% della Gen Z si dichiara “sopraffatto” dalla trasformazione che l’introduzione dell’AI sta provocando nel mondo del lavoro, a fronte del 32% e 31% registrati rispettivamente da Gen Y e Baby Boomer.

Prima e dopo

I timori per l’impatto sul proprio lavoro, però, potrebbero essere soprattutto frutto della mancanza di conoscenze specifiche. Uno studio di revisione della letteratura scientifica sull’argomento condotto all’Università degli studi di Padova registra ad esempio un generale miglioramento della percezione dei lavoratori una volta che hanno cominciato a utilizzare l’AI.

Secondo le ricerche analizzate, l’introduzione dell’intelligenza artificiale nei contesti lavorativi viene inizialmente accolta con diffidenza, ansia e preoccupazioni per la stabilità occupazionale. Il timore più diffuso tra i lavoratori riguarda proprio la perdita del posto di lavoro, in particolare in Europa del Sud, dove il 97% dei lavoratori in Portogallo, il 91% in Spagna e l’88% in Grecia esprimevano timori in merito mentre in Danimarca e Olanda le percentuali scendevano rispettivamente a 49% e 40%.

Anche il rischio di errori commessi dall’AI è una preoccupazione rilevante, soprattutto in ambito sanitario. Tuttavia, la percezione muta sensibilmente dopo la sua implementazione, anche a fronte dei risultati positivi: nel settore industriale, la produttività con l’AI è aumentata del 35,5% e, in ambito sanitario, gli errori si sono ridotti fino all’80%. Inoltre, la soddisfazione lavorativa è cresciuta del 20,6%. La diffidenza è diminuita sensibilmente sia nel Nord che nel Sud d’Europa: in Olanda, il timore verso l’AI è passato al 22%, mentre in Danimarca è sceso al 25%; sul fronte sud-europeo, in Portogallo, il timore è sceso al 65%, in Spagna al 58% e in Grecia al 60%.