Non importa quanto possano essere ben strutturati l’approccio all’innovazione e le iniziative di open innovation a livello organizzativo se in azienda non si diffonde una cultura dell’innovazione. Inizia così l’intervento di Filippo Frangi, ricercatore dell’Osservatorio Startup Intelligence della School of Management del Politecnico di Milano, durante la giornata di presentazione dei risultati del sondaggio 2021 con cui gli Osservatori hanno tastato il polso delle aziende italiane in materia di innovazione. Spetta invece a Stefano Mainetti, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Startup Intelligence, addentrarsi nel ruolo che l’open innovation svolge nelle aziende italiane.
Imprese e cultura dell’innovazione
Innovare significa anche saper guardare oltre i confini della propria azienda. La fusione tra le dinamiche delle realtà consolidate e il mondo dell’imprenditoria e delle startup è infatti vista di buon occhio dal 72% delle aziende coinvolte nel sondaggio, che prevedono attività di corporate entrepeurship. Ma anche dal 15% di loro, che dichiara di avere in programma iniziative di questo tipo. Solo il 13% sembra invece non essere interessato a questo tipo di integrazione.
In questo contesto poi le tipologie di intervento attuate dalle aziende possono essere molto differenti. La maggior parte mette in azione attività di formazione oppure modifica lo stile di leadership. Solo una minoranza invece attua attività più strutturate, come percorsi di action learning, contest e hackathon interni o vere e proprie interazioni con le startup.
L’approccio culturale
Come spiega Frangi nella sua premessa, però, niente di tutto questo può essere pienamente efficace senza un ambiente culturalmente pronto. L’innovazione non deve infatti essere imposta, ma diffusa in modo continuativo. Le aziende lavorano in questa direzione soprattutto favorendo la partecipazione dei dipendenti alle iniziative di innovazione (44%) e la diffusione di competenze digitali e imprenditoriali (30%). Il 20-30% delle aziende coinvolte dal sondaggio, inoltre, dichiara di lavorare anche in direzioni diverse, favorendo la condivisione di esperienze e il pensiero creativo e tessendo relazioni con attori esterni.
Solo il 20% sceglie invece di dedicare tempo e spazio ai progetti di innovazione. Anche se non sono molte le aziende che lo mettono in campo, questo punto è importante per la diffusione della cultura dell’innovazione. Non solo, infatti, permette ai dipendenti di potersi dedicare ai progetti innovativi senza problemi, ma aiuta anche a legittimare l’innovazione stessa. Soltanto il 15% delle aziende infine dedica risorse a un punto dolente ma cruciale dell’innovazione: l’accettazione del fallimento. Saper rielaborare una sconfitta è importante per crescere, anche nelle aziende.
Frangi continua poi il suo intervento con la percezione delle iniziative innovative da parte delle persone dell’azienda, piuttosto diversa da quella del management. A fronte dei comportamenti che le aziende mettono o pensano di mettere in campo, infatti, le percentuali di riscontro da parte dei lavoratori sono nettamente inferiori. L’unica eccezione è la creazione di relazioni con attori esterni, che sembra essere più una spinta delle persone che dell’azienda. In generale però il sondaggio ha rilevato una decisa discrepanza tra lo sforzo dell’azienda di ingaggiare le persone e la percezione di queste ultime. Sembra quindi che molte volte manchi ancora una spinta concreta da parte delle aziende nello stimolare la diffusione della cultura dell’innovazione.
Non si può gestire ciò che non si misura
L’innovazione può anche essere misurata e farlo è l’unico modo per poterla gestire adeguatamente. Non sono molte però le aziende che sembrano averlo capito. Anche se il loro numero è aumentato nell’arco degli ultimi anni, il sondaggio ha rilevato che solo il 39% delle imprese coinvolte ha adottato un sistema di misurazione delle performance dell’innovazione. Tra di loro inoltre solo il 10% dispone di un sistema consolidato. Incoraggiante è però il fatto che il 37% delle aziende ha dichiarato di avere in programma degli sviluppi in questo senso, mentre solo il 24% non sembra interessato.
Anche quando l’innovazione viene misurata, inoltre, i parametri su cui ci si concentra sono tendenzialmente quelli che si è più facilmente in grado di misurare. Al primo posto infatti figurano i risultati di business, sicuramente uno degli obiettivi finali dell’innovazione, subito seguiti dalla quantità di risorse impiegate. Infine si misurano le fasi operative dei progetti, parametro importante per stabilirne lo stato di avanzamento.
Ma questi parametri si discostano da ciò che le aziende ritengono invece importante misurare. Oltre ai risultati di business, infatti, il management ritiene rilevante la valutazione dell’arricchimento di conoscenza dell’impresa rispetto al business in cui opera e l’efficacia nella diffusione della cultura dell’innovazione. Tuttavia è difficile trovare degli indicatori che quantifichino questi parametri, motivo per cui la loro misurazione, sebbene più efficace, rimane nelle intenzioni ma fatica a concretizzarsi.
La spinta verso l’open innovation
L’innovazione, soprattutto quella aperta, può però anche essere vista come una sorta di ribellione all’ordine preesistente, che cerca di scardinare le dinamiche aziendali alla ricerca di qualcosa di nuovo. A volte sono quindi necessari degli stimoli per smuovere il sistema verso un’innovazione che potrebbe anche fare paura. La pandemia ha parzialmente modificato le fonti di questi stimoli, consolidandone alcuni e facendone emergere di nuovi. Mainetti presenta il top management come attore principale che spinge l’azienda ad affrontare l’argomento, subito seguito dalle altre funzioni aziendali. Al terzo posto compaiono invece i clienti esterni, grande fonte di ispirazione per le aziende anche in termini di innovazione.
Ma la vera novità rispetto al pre-pandemia è la decisa comparsa di startup, università e centri di ricerca tra le fonti di stimolo all’innovazione riconosciuti dalle aziende. L’emergenza sanitaria ha infatti spinto la consapevolezza della necessità di cambiare schemi e comportamenti del passato. La voglia di novità ha spianato la strada quindi all’innovazione, insieme alla grande quantità di aiuti economici messi a disposizione dal nostro Paese.
Open innovation: gli approcci delle aziende
Dalla teoria alla pratica. Non tutte le aziende mostrano la stessa propensione all’innovazione né attuano le stesse strategie per metterla in pratica. Come spiega Mainetti, una grossa linea di demarcazione è data dalla dimensione dell’azienda. Infatti mentre l’81% delle grandi imprese adotta strategie di open innovation, nelle PMI è solo il 41% a farlo. In entrambe le tipologie di azienda, inoltre, prevalgono gli approcci inbound, cioè di internalizzazione dell’innovazione esterna all’azienda, primo fra tutti la collaborazione con università e centri di ricerca. Molte realtà comunque cominciano ad affiancare a questi approcci anche quelli outbound, ad esempio il platform bisuness model.
Ma quanto costa tutto questo? Mainetti conclude il suo intervento con i risultati dell’indagine sui costi dell’open innovation. Benché sia difficile stimare quelli nascosti, dal sondaggio emerge che l’innovazione incide molto poco sul fatturato aziendale, in media lo 0,1%. Anche se si considera il budget ICT, il dato è basso: in media solo il 3,6% di questo denaro viene investito in open innovation.
Benché possa sembrare una piccola goccia in un grande mare, i dati del sondaggio 2021 sono molto incoraggianti. Le aziende sembrano davvero pronte a innovare e cominciano a dimostrarlo con i fatti. Fermo restando però il ruolo giocato dalla diffusione della cultura dell’innovazione, forse ancora non del tutto compreso dalle aziende italiane.
La cultura si mangia la strategia a colazione.
Peter Drucker
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