La ricerca ferve e il progresso nel settore farmaceutico sta esprimendo un’accelerazione senza precedenti.
Questo significa che la comunità scientifica è affidabile: nella difficoltà c’è e la sua presenza si fa sentire.
Women&Tech affronta questo tema con un panel d’eccezione, discutendo di come la biotecnologia ci stia portando nel futuro in un webinar organizzato nell’ambito del progetto Ready4Future.
Ready4Future: la scienza è pronta
Contrariamente a quanto insinuato per mesi da molti mezzi di informazione, la comunità scientifica non ha mai alzato paletti e muri per ostacolare la diffusione di informazioni potenzialmente utili e proteggere le conoscenze dei singoli centri di ricerca.
Al contrario, è stata la fulminea risposta predisposta dagli scienziati cinesi, che per primi hanno avuto la possibilità di esaminare da vicino il virus e i casi clinici dei pazienti infettati, a permettere la circolazione tempestiva di dati essenziali allo studio di SARS-CoV-2.
Non a caso, le pubblicazioni più citate nella prima fase della pandemia sono tutte a firma di scienziati cinesi. Lo precisa Maria Pia Abbracchio, Prorettore con delega a Strategie e Politiche della Ricerca dell’Università degli Studi di Milano. Che sottolinea l’altrettanto veloce operazione di riorientamento delle risorse in ricerca, prontamente dirottate verso i nuovi obiettivi di salute.
Il contesto inedito della pandemia ha addirittura messo in luce nuove e proficue forme di comunicazione della scienza. Modelli come quello di Med Archive, la piattaforma web che ha ospitato pubblicazioni preprint in attesa di peer review per favorire la circolazione delle informazioni scientifiche, ha rappresentato un paradigma dirompente.
Ready4Future? Sì, con i vaccini
Nel 2020 la produzione di studi scientifici è esplosa, specialmente, ça va sans dire, nel settore degli anti-infettivi, ambito nel quale ha compiuto un balzo in avanti del 22%.
In questo contesto, le biotecnologie stanno crescendo senza interruzioni, specialmente per quanto riguarda gli strumenti più importanti per vincere la battaglia contro il SARS-CoV-2, anticorpi monoclonali e vaccini.
Pur con i noti vincoli (in termini di tempestività della somministrazione, di selezione dei pazienti eleggibili al trattamento e di costi), i primi hanno espresso una certa potenzialità di utilizzo. Aspetti che si stanno chiarendo via via che il tempo scorre e l’esperienza clinica permette l’accumulo di sufficienti informazioni.
Un grosso passo avanti è stato compiuto puntando il focus sulle combinazioni di anticorpi monoclonali, che esprimono efficacia superiore e riducono il rischio di potenziamento delle varianti che pendeva sulla monoterapia.
Per quanto riguarda i vaccini, dopo i chiarimenti in sede di farmacovigilanza, l’unico vero step limitante è rappresentato dalle carenze nell’approvvigionamento.
Sono attualmente 348 i vaccini in sviluppo, 91 dei quali in fase di sperimentazione clinica, mentre 13 prodotti hanno già ricevuto un’autorizzazione all’immissione in commercio. Lo spiega Loredana Bergamini, Direttore Medico di Janssen, che chiarisce a Ready4Future le caratteristiche salienti del vaccino prodotto dall’azienda per cui lavora.
Un vaccino basato su un vettore adenovirale, che viene utilizzato per trasportare le istruzioni per la sintesi della proteina Spike nelle cellule responsabili della produzione di anticorpi. E che, vantaggio non indifferente, richiede una sola somministrazione.
Quale diagnostica nel futuro di COVID-19?
Prima ancora dell’ottenimento dei vaccini, all’origine della pandemia è stato necessario tracciare la diffusione del contagio, comprendere come si trasmettesse il virus.
A quell’epoca, che sembra preistorica malgrado siano trascorsi pochi mesi, non esistevano piattaforme tecnologiche in grado di supportare l’attività di tracking.
È stato grazie agli isolamenti e all’impegno profuso dalle aziende nel campo diagnostico che ci si è potuti spingere verso lo sviluppo di sistemi adeguati per identificare i soggetti positivi e isolarli, minimizzando le possibilità di diffusione.
Pierangelo Clerici, Presidente FISMELAB (Federazione delle Società Scientifiche del Laboratorio) e AMCLI (Associazione Microbiologi Clinici), ricorda che a fine gennaio 2020 la capacità di esecuzione delle prove era di 12-20 test al giorno. Nulla in confronto ai 1.500-2.000 test molecolari che oggi riusciamo a realizzare nella stessa unità di tempo.
Questo miglioramento è frutto dell’introduzione di nuove piattaforme ma anche di quantità di reagenti adeguate alle effettive necessità e alla disponibilità di tutti gli strumenti e componenti ausiliari al funzionamento del dispositivo medico diagnostico. La mancanza di elementi essenziali e di un’infrastruttura che consentisse l’utilizzo dei tools già disponibili ha creato sofferenza almeno fino alla fine di maggio 2020.
Ad oggi, il gold standard per la diagnosi di COVID-19 rimane la biologia molecolare, il tampone tradizionale.
Ma le aziende e le istituzioni stanno già immaginando un utilizzo di massa dei test salivari, imprescindibili se a settembre si vorrà far ripartire la scuola e tutti i luoghi di lavoro a pieno ritmo.
Un secondo punto critico è rappresentato dalle piattaforme diagnostiche disponibili, oggi numerose. I rischi riguardano la mancanza di sovrapponibilità reciproca e la possibilità di ottenere una frequenza significativa di falsi positivi o, peggio, falsi negativi.
Per evitare problemi di ordine medico-legale, andranno chiariti alcuni punti su questo aspetto.
La salute è brevettabile?
La discussione sull’etica dei brevetti in ambito di salute pubblica è solo riemersa in questi giorni, essendo molto più antica di quanto i più pensano.
In occasione del webinar di Ready4Future Paola Minghetti, docente presso il Dipartimento di Scienze Farmaceutiche dell’Università degli Studi di Milano, riporta alla memoria la decisione presa nel 1939 nel nostro Paese, che ha portato all’abolizione della possibilità di brevettare i farmaci.
Una decisione che non ha consentito di risolvere i problemi per i quali è stata presa, dal momento che il controllo dei prezzi e la tutela della qualità dei medicinali sono il risultato di normative specifiche molto stringenti.
Anche a seguito di queste considerazioni, nel 1978 i brevetti sui farmaci sono stati reintrodotti.
La rinuncia alla proprietà intellettuale ha mostrato di portare ad una riduzione degli investimenti in ricerca, penalizzando un settore più che mai indispensabile per la società. Al contrario, il brevetto si è mostrato strumento di promozione della ricerca. Lontano dall’ostacolare il progresso, permette una condivisione di informazioni che diventa il punto di inizio per nuovi e più avanzati progetti.
Inoltre, la situazione è molto più complessa di ciò che appare. Su un vaccino non viene depositato un unico brevetto: devono essere brevettati la piattaforma impiegata, gli strumenti usati per produzione, i singoli componenti…
E un intervallo di tempo significativo dei 20 anni di validità del brevetto viene impiegato per lo sviluppo del prodotto. Tanto che si è dovuti ricorrere a strumenti alternativi per estendere la durata dei brevetti.
In definitiva, più che sospendere la proprietà intellettuale, sarebbe molto più efficace favorire i rapporti fra le aziende in modo da estendere la produzione.
Normalità: siamo sicuri di volerla?
In un’epoca nella quale le normali abitudini hanno portato a cambiamenti climatici ed alterazioni degli ecosistemi, parlare di ritorno alla normalità è quantomeno azzardato.
D’altro lato, ci vediamo obbligati a individuare sistemi che sappiano coniugare lo sviluppo economico necessario a scongiurare un impoverimento globale con la tutela dell’ambiente.
Oggi sappiamo che parlare di salute umana non ha più molto senso. Ha molto più valore il concetto di salute universale, One Health, un principio che include il benessere animale e la qualità dell’ambiente in cui viviamo.
A Ready4Future la Presidente di Plantarei Elena Sgaravatti evidenzia come la dimensione della circolarità potrebbe costituire l’elemento decisivo nella soluzione di questo rompicapo.
Se le risorse scarseggiano e i sistemi di produzione tradizionali non sono più sostenibili, la bioeconomia circolare può fornirci la possibilità di dare nuova vita a quelli che oggi consideriamo sottoprodotti.
Una maggiore attenzione all’ambiente e agli ecosistemi che non potrebbe che rappresentare più salute per tutti.