Una ricerca di EngageMinds HUB (Università Cattolica di Milano) ha rilevato che il 70% degli operatori sanitari impegnati nelle regioni più colpite dall’emergenza Covid-19 ha mostrato segni di burnout. Nove su dieci, inoltre, hanno avvertito sintomi di stress psicofisico.
L’emergenza sanitaria ha messo alla prova la psiche di tutti i cittadini ma gli operatori sanitari sono stati sottoposti alla pressione più estrema.
Emozioni primarie
Come ha spiegato lo psicologo e psicoterapeuta Giorgio Nardone durante l’evento IQVIA PHARMAtrends 2021, questa pressione psicologica ha sollecitato le nostre emozioni primarie, quelle cioè che si innescano automaticamente, senza l’intervento della coscienza. Delle quattro emozioni primarie (paura, dolore piacere e rabbia), sono state attivate in qualche misura tutte e tre quelle negative, in particolare la paura, sentimento che non ha certo risparmiato gli operatori sanitari. Medici, infermieri, Oss hanno tutti dovuto affrontare diverse forme di paura, non solo quella di infettarsi. Molti medici sono rimasti lontano dalla loro famiglia per tutto il periodo di emergenza per evitare di contagiare altri membri, una situazione che ha ulteriormente accresciuto la pressione psicologica. In molti casi si sono sentiti impotenti, con la paura di sentirsi inadeguati per curare i pazienti.
Questo sentimento ha colpito gran parte della popolazione: molte persone, per paura del contagio, hanno deciso di non recarsi dal medico, dagli specialisti, negli ambulatori. Combinato alle difficoltà di recarsi negli ospedali, questo fenomeno ha causato un crollo nel numero delle visite e degli esami diagnostici.
Dolore e rabbia
Il dolore è stata un’altra delle emozioni primarie che ha più accompagnato i sanitari: perdere così tanti pazienti – e conoscenti – con la sensazione di non riuscire a controllare in nessun modo l’ondata pandemica ha causato un dolore continuo, misto a senso di inadeguatezza. Senza contare i medici costretti a selezionare i pazienti da curare e quelli da trascurare, col rischio di vederli morire. Si tratta di condizioni estreme, che hanno generato dolore, ma anche rabbia.
I clinici e gli osservatori hanno constatato che la somma di queste tre emozioni genera una reazione ancora più pericolosa: l’angoscia. Si tratta di una risposta emotiva più elevata rispetto alle primarie perché coinvolge anche il livello della coscienza. É la sensazione di essere condannati in una situazione senza uscita, una percezione che ha accomunato molti membri della classe medica.
Oltre il burnout
Per questo Nardone, che è anche tra i fondatori del “Centro di terapia strategica” sostiene che il termine burnout sia inappropriato in questi casi, in quanto troppo limitativo. In gioco c’è in realtà molto di più, la sensazione di combattere allo stremo ma di essere destinati alla sconfitta, in una condizione disperata. In questi casi l’individuo può reagire solo facendo leva su tutte le sue risorse; un aiuto farmacologico in questi casi può essere utile ma è soprattutto necessario un sostegno psicologico.
Le cinque reazioni emotive all’emergenza
Sono stati identificati cinque profili di reazione psicologica messi in atto dalle persone durante l’emergenza, ognuno dei quali rappresenta una risposta adattiva – sebbene per altri versi disfunzionale – mirata a scaricare il livello di angoscia.
La prima risposta, molto diffusa, è il ricorso a una spiegazione di tipo complottistico. Non si tratta – ha chiarito Nardone – di una reazione limitata a frange di estremisti no-vax o alle fasce di popolazione con un basso livello culturale, ma è un atteggiamento che può insorgere in tutti i soggetti con una struttura psicologica tendente alla paranoia (“molti più di quanto si pensi”). Questa modalità di risposta cerca di ridurre il livello di angoscia spostando il bersaglio della propria frustrazione. Avere un obiettivo esterno da aggredire, infatti, permette di scaricare la tensione interna. È un fenomeno simile a quello rilevato nei ratti dagli studi di Henri Laborit: i ratti colpiti da una scarica elettrica reagiscono attaccando altre cavie più deboli, e nel caso non possano sfogarsi in quel modo, producono somatizzazioni, ad esempio ulcere.
Paura del contagio
Un meccanismo simile si verifica quando si genera una paura esasperata di essere contagiati. In molti casi la reazione delle persone si è espressa in un tentativo esagerato di allontanamento e difesa dalle altre persone, per il timore di subire il contagio ma anche la “stigmatizzazione del contagiato”. Anche in questo caso, la scelta di un bersaglio esterno mira all’abbassamento della tensione.
Un’altra modalità adattiva – molto frequente anche nel personale sanitario – è l’ipocondria, una reazione di paura alla malattia. Questa risposta – che ha generato l’assalto ai pronto soccorso e la corsa a ottenere almeno una diagnosi (se non un trattamento) – può rivelarsi particolarmente disfunzionale perché, in molti casi, per sfuggire alla paura del contagio gli individui sono entrati in contatto con persone davvero malate presenti nei vari presidi sanitari. Questa è anche la malattia professionale del medico, quotidianamente a contatto con la patologia.
Igiene compulsiva
Molte persone con tendenze ossessivo-compulsive hanno invece reagito affidandosi in modo maniacale alle procedure di igiene, non riuscendo poi a contenere il ritmo delle routine, nemmeno d’estate, a lockdown terminato. È un fenomeno che si riscontra spesso tra i medici e gli operatori sanitari: lavarsi e igienizzarsi costituisce anche una ritualità confortante, che ha l’effetto fondamentale di ridurre l’ansia.
L’ultimo profilo individuato è quello che potremmo definire “dell’irresponsabile”, colui che nega il pericolo e non può fare a meno di cercare il piacere anche a costo di correre seri rischi.
Individuando la specifica tipologia di risposta di un individuo è possibile aiutarlo a costruire una sorta di “igienizzazione emotiva” e permettergli di raggiungere un adeguato livello di resilienza, la capacità di riprendersi dai traumi psicologici.
Il coraggio di avere paura
È possibile fornire aiuto agli operatori sanitari – ma non solo – a due livelli. Il primo è rappresentato dal sostegno diretto all’individuo. Esistono infatti molte tecniche efficaci che possono aiutare a superare eventi traumatici e a gestire le proprie reazioni emotive generate in situazione di emergenza. Ad esempio – spiega Nardone – è importante non reprimere la paura ma bisogna anzi imparare ad assecondarla, lasciarle libero sfogo fino a farle perdere la sua carica negativa. È quella che viene definita “tecnica della peggiore fantasia”.
Nell’affrontare il dolore, invece, è bene non cercare il conforto delle altre persone: «Più si socializza il dolore, più si esaspera». È un sentimento che deve essere trattato come esperienza individuale, ogni individuo deve essere in grado di attraversare la sofferenza autonomamente, senza cercare di resistere negando il sentimento.
«In alcuni momenti è necessario lasciarsi andare alle emozioni più disperate perché è un’esperienza sanificante».
Le tecniche per comunicare a distanza
Il secondo livello di sostegno è indiretto, ottenuto creando un ambiente operativo adeguato, con le giuste strutture e strumentazioni, e valorizzando il potenziale delle nuove tecnologie. In questo momento è fondamentale poter comunicare a distanza ma servono strumenti e competenze adeguate. Per sfruttare al meglio le potenzialità di questi nuovi mezzi, infatti, è necessario capire bene come funzionano e adattarsi alle loro specificità. Servono dunque nuove skill.
La comunicazione da remoto è molto differente da quella di persona e necessita di diversi accorgimenti. Innanzitutto va tenuto presente che nella comunicazione personale il primo senso attivato è la vista e che le emozioni passano per oltre l’80% dal linguaggio non verbale e paraverbale, come il suono della voce e la gestualità. È chiaro che attraverso lo schermo molto di questo si perde, a partire dal contatto visivo, e con esso si riduce la possibilità di comunicare – e suggestionare – l’altra persona variando semplicemente le proprie espressioni. Allo stesso tempo, però, possiamo lavorare molto più sulla voce imparando a modularne il tono, rendendola più suadente, rallentando il ritmo delle parole e ampliando le pause, e alternando continuamente linguaggio logico e linguaggio per immagini.
Psicoterapie efficaci anche da remoto
Nell’esperienza di Nardone, se utilizzate nel modo corretto, le tecnologie permettono di effettuare interventi da remoto con la stessa efficacia di quelli vis a vis.
«Riuscendo a impiegare forme di linguaggio adatte agli strumenti tecnologici, l’efficacia degli interventi a distanza non si è ridotta minimamente».
Sia le psicoterapie condotte quotidianamente in teleconferenza che gli interventi di formazione a distanza hanno infatti mantenuto la stessa efficacia. Nardone è ottimista: se siamo in grado di interpretare le necessità delle tecnologie e ci adattiamo adeguatamente, i risultati si manterranno intatti e potranno forse anche migliorare perché la frequenza degli interventi potrebbe essere maggiore.