L’uso appropriato degli antibiotici sembra una sorta di chimera, nonostante il problema delle resistenze a questi farmaci stia diventando sempre più complesso, rilevante, globale. L’allarme giunge dal Rapporto Nazionale L’uso degli antibiotici in Italia dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) presentato di recente. Come evidenzia il documento, nel 2019 il Servizio sanitario nazionale ha erogato 17,5 dosi per mille abitanti al giorno, di cui 15,6 in regime di assistenza convenzionata e 1,9 in ambito ospedaliero.
Il consumo maggiore è stato registrato al Sud e al Centro della penisola, anche se in alcune regioni, soprattutto in Campania e Sardegna, si è verificata una progressiva riduzione. Questa categoria di farmaci resta la più utilizzata dalla popolazione, con circa 4 cittadini su 10 che nel 2019 hanno ricevuto almeno una prescrizione di antibiotici. In particolare, l’impiego maggiore di antibiotici si è attestato nelle fasce di età estreme, ovvero nei bambini con meno di quattro anni e negli over 85.
La spesa pro capite nazionale è stata di 13,9 euro, con una spesa totale di 839,2 milioni di euro.
Sul territorio riduzione del 5,8%
Nel periodo compreso tra il 2016 e il 2019, nell’ambito dell’assistenza convenzionata, è stata registrata una riduzione dei consumi di antibiotici del 5,8%. Una buona notizia? Non proprio, visto che tale valore si discosta ancora molto dall’obiettivo fissato dal Piano nazionale di contrasto all’antimicrobico resistenza (Pncar), ovvero una riduzione di almeno il 10% nel 2020 rispetto al 2016. L’impiego più elevato è stato registrato per le penicilline in associazione agli inibitori delle beta-lattamasi, seguite dai macrolidi e dai fluorochinoloni.
In ambito pediatrico nel 2019, il 40,9% dei bambini ha ricevuto almeno una prescrizione di antibiotici, con una media di 2,6 confezioni a testa. Le associazioni di penicilline (compresi gli inibitori delle beta-lattamasi) hanno rappresentato la classe più utilizzata, seguite dai macrolidi e dalle cefalosporine, antibiotici considerati di seconda scelta in base alle linee guida per il trattamento delle infezioni più comuni nei piccoli pazienti, come otiti e faringo-tonsilliti.
Nel 2019 rispetto all’anno precedente è stata osservata una riduzione dei consumi del 3% e la categoria che ha maggiormente contribuito a tale flessione è stata quella dei fluorochinoloni. Evidentemente la comunicazione dell’European medicines agency (Ema) del 16 novembre 2018, che raccomandava una restrizione dell’uso di questa classe di antibiotici, ha dato i suoi frutti. Per quanto riguarda il confronto con gli altri Paesi d’Europa, nel 2019 l’utilizzo di antibiotici a livello territoriale nel nostro Paese si è mantenuto superiore rispetto alla media europea, soprattutto per quanto riguarda macrolidi e lincosamidi.
In ospedale molto usate penicilline e cefalosporine
Nel contesto ospedaliero, nel 2019 le dosi di antibiotici utilizzate sono state 77,2 per cento giorni di degenza. Nonostante la lieve riduzione dell’ultimo anno, il consumo è risultato in crescita del 9,9% nel triennio 2016-2019, in contrasto con quanto auspicato dal Pncar, che chiedeva una diminuzione di almeno il 5%.
La classe di antibiotici più utilizzata è stata quella delle penicilline associate agli inibitori delle beta-lattamasi, seguita nell’ordine da cefalosporine di terza generazione e da fluorochinoloni. Il consumo di carbapenemi è aumentato nel 2019 del 10,1% rispetto al 2018. Un andamento in ascesa che rispecchia quello del consumo totale di antibiotici implicati nel fenomeno delle resistenze, il cui incremento nel 2019 rispetto all’anno precedente si è attestato al 15%.
L’analisi del Drug resistence index ha, inoltre, mostrato per Klebsiella pneumoniae un’elevata resistenza alle cefalosporine di terza generazione (58%) e ai carbapenemi (29%) e per lo Staphylococcus aureus una resistenza alla meticillina del 34%.
L’analisi dei clinici
Ebbene, ma come si possono utilizzare questi numeri per realizzare interventi di stewardship antibiotica davvero efficaci? A rispondere alla domanda, commentando i risultati del report, sono stati alcuni esperti.
Come Evelina Tacconelli, professore ordinario di Malattie infettive all’Università di Verona e direttore della Clinica di Malattie infettive dell’Azienda ospedaliera universitaria integrata della città scaligera, che ha spiegato: «La strategia, che deve prevedere una collaborazione tra strutture ospedaliere e medici di medicina generale, non può essere declinata solo su base nazionale, ma deve essere calibrata a livello locale, tenendo conto dei dati di sorveglianza delle infezioni ospedaliere. Inoltre, la valutazione degli interventi effettuati non può essere limitata al calcolo delle dosi di antibiotici consumate, ma deve includere la valutazione qualitativa delle classi e del rischio ecologico di sviluppo di resistenze. Infine, per una corretta implementazione della stewardship occorrerebbero “reti” dedicate a livello nazionale».
Secondo Anna Maria Marata, medico del Servizio di assistenza territoriale farmaci e dispositivi medici della Regione Emilia Romagna, «è urgente mettere in pratica alcune azioni: unire e coordinare le attività che si sono dimostrate vincenti, coinvolgendo tutti i prescrittori e trovando modalità per un uso rigoroso ed equilibrato dei vecchi e dei nuovi antibiotici; monitorare la prescrizione informatizzata dei nuovi antibiotici a livello nazionale fornendo report dettagliati a livello locale; agire sull’impiego di antibiotici negli allevamenti di animali; favorire la ricerca di nuovi antibiotici efficaci contro i batteri multiresistenti, ma nel contempo proteggere il loro uso e il loro mantenimento in commercio, per esempio individuando nuove strategie di negoziazione».
Il fatto è che le aziende farmaceutiche, per il timore di non avere un adeguato ritorno economico, sono poco propense a investire in questo settore. Che fare, dunque? In proposito interviene Giuseppe Traversa, dirigente dell’area Strategia ed economia del farmaco di Aifa, che dichiara: «Occorre aumentare gli investimenti nella ricerca clinica indipendente sugli antibiotici, per esempio tramite la Drugs for neglected diseases initiative, un’organizzazione finanziata dal sistema pubblico che sviluppa nuove terapie per le malattie trascurate».