Questione di fiducia

L’Italia vanta un settore biotecnologico attivo e in forte crescita ma sconta un certo grado di diffidenza da parte dei grandi investitori internazionali dovuta sia alla scarsa conoscenza del valore delle aziende sia a una nomea del Paese non proprio favorevole. Per questo è stato avviato un percorso per promuovere la cooperazione internazionale.

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Negli investimenti la fiducia è un elemento essenziale.
«Senza fiducia – ha affermato Rachel Botsman, Trust Fellow della Oxford University – non potremmo dare i nostri soldi in gestione o investirli». Sfortunatamente, questo fattore non dipende solo dalle proprie capacità ma può essere influenzato da una moltitudine di fattori, anche esterni.

Nel mondo della finanza è un concetto molto chiaro: durante la crisi economica del 2011-12 i gestori di fondi di investimento andavano attivamente a caccia di titoli scambiati con lo “european discount”, una riduzione della valutazione dovuta al fatto che la società avesse sede in Europa. Lo sconto non aveva reali base economiche, dato che veniva applicato anche per aziende che svolgevano gran parte della loro attività fuori dal Paese di origine. Sanofi, ad esempio, otteneva solo il 5% dei suoi profitti in Francia ma il suo prezzo era, in proporzione, inferiore del 14% rispetto all’analoga Johnson&Johnson.
Il peso della fiducia è ancora maggiore in caso di venture capital. Secondo una ricerca della Tilburg University, il livello di fiducia in una nazione predice positivamente le
decisioni di investimento dei fondi di venture capital pur avendo una correlazione negativa con il successo degli investimenti (per inciso, l’Italia figurava come la peggiore a livello di fiducia tra i Paesi considerati, dietro a Grecia e Portogallo). Inoltre, la ricerca suggerisce che gli investimenti in fasi più precoci richiedano un maggior livello di fiducia. Se a questo quadro aggiungiamo che l’Italia si posiziona al 38° posto su 54 Paesi nella classifica dell’innovazione in campo biotecnologico (dietro a Polonia e Ungheria) si capisce quali difficoltà possano incontrare le nostre aziende biotech quando si affacciano sul mercato internazionale per cercare investimenti.

Creare fiducia in un Paese però, richiede tempo, risorse, pianificazione e lavoro collettivo, come spiega Pierluigi Paracchi, Ceo di Genenta e appena nominato moderatore del tavolo di lavoro nazionale per l’internazionalizzazione delle industrie biotecnologiche recentemente istituito dal ministro Tajani.

Innanzitutto congratulazioni per il nuovo incarico. Che caratteristiche avrà il tavolo di lavoro?

Questo tavolo di lavoro presenta un elemento di innovazione significativa per il nostro Paese perché non si limita a raccogliere esponenti politici ma, ispirandosi ai modelli delle commissioni americane, include anche importanti rappresentanti dell’industria e della ricerca. Oltre a me come moderatore, vi parteciperanno anche diverse figure di spicco, ad esempio Giovanni Caforio, il Ceo di Bristol-Myers Squibb che nel 2019 ha guidato l’acquisizione di Celgene Corporation per un valore di oltre 70 miliardi di dollari. È uno dei manager italiani di maggior successo negli Stati Uniti e la sua esperienza è fondamentale per fare bridge con la realtà d’oltreoceano e internazionali. Poi ci sono Pierluigi Petrone di Farmindustria con l’omonimo gruppo, Gianmario Verona, dello Human Technopole, esponenti del CNR e i vertici di ENEA Biomedica Tech. Non mancano ovviamente i rappresentanti dei ministeri come il Maeci e il Mimit (i ministeri degli Esteri e quello delle Imprese e del Made in Italy). Le premesse sono buone e mi aspetto che insieme si possa svolgere un lavoro del tutto nuovo per far esplodere il nostro settore biotech che se lo merita per la grande qualità e per il potenziale impatto sui pazienti.”

Per Genenta, dal punto di vista strategico, che significato assume la partecipazione del suo amministratore delegato a un tavolo di questo tipo?
Nell’ambito delle biotecnologie, le dinamiche di mercato sono stratificate a livello globale.
Potremmo dire che gli Stati Uniti rappresentano la “serie A” del settore, seguiti da Cina come “serie B” e dal nord Europa (“serie C”). In questo contesto l’Italia e il sud Europa rappresentano i “cadetti”. L’accoglienza degli investitori ovviamente è diversa a seconda della tua provenienza: se una società possiede dati validi e una solida base scientifica e ha sede in un centro nevralgico come Boston-Cambridge, la sua strada è in discesa ed è accolta con tutti gli onori, trova molti soldi e buone valutazione. Se la stessa azienda arriva da una “provincia dell’impero”, come può essere l’Italia, la sua valutazione sarà più ostica e l’accredito più macchinoso.
Naturalmente non significa che l’azienda abbia un valore inferiore, però verrà accolta con
maggiore diffidenza. È del tutto naturale. Per fare un esempio, quando Genenta è stata quotata al Nasdaq nel 2021, ha subìto quello che si definisce ”European discount” – uno sconto del 30% sulla valutazione rispetto ai nostri omologhi americani. Le società di Boston-Cambridge o della Silicon Valley ottengono invece valutazioni stellari, a volte anche eccessive, grazie all’hype che le circonda. Per tutto il sistema biotech italiano, quindi, è fondamentale cambiare la percezione nei confronti del nostro Paese e delle sue aziende.
Essere parte di questo Tavolo significa aumentare la visibilità, avere rapporti istituzionali di
primo livello. Insomma, chiudere parte del gap appena accennato. Ovvero, salire di categoria.

In quest’ottica si inserisce anche il bilaterale tra Italia e Stati Uniti che si è tenuto a novembre?
Certo, rientra in un percorso mirato a far conoscere le nostre imprese al mondo finanziario e al governo americano oggi e internazionale domani generando la fiducia necessaria per poter dialogare con loro allo stesso livello. Nella conferenza “Italia-Usa: cooperazione internazionale sulle biotecnologie emergenti e le scienze della vita” abbiamo coinvolto figure chiave per questo percorso, personaggi del calibro di Stephen M. Hahn, manager director di Flagship Pioneering ed ex-commissario della FDA durante il periodo della pandemia, Renee Wegrzyn, director di ARPA-H, Charles Roberts di ARK Invest, braccio destro di Cathie Wood, Laura Tadvalkar di RA Capital. Joe Buccina della National SecurityCommission on Emerging Biotechnology. È chiaro che se riesci a instaurare una relazione stabile con un network di questo calibro, la natura del dialogo con le istituzioni e i grandi investitori internazionali muta profondamente. Questo secondo me ha un valore inestimabile. Per tutto l’ecosistema italiano delle biotech non solo per Genenta. È fondamentale portare avanti tutti insieme questo lavoro, non può essere lasciato
alla singola iniziativa. Anche perché la concorrenza non manca e altre nazioni sono molto
meglio organizzate. I nostri cugini francesi, per fare un esempio, si presentano in blocco alla JPMorgan Conference a San Francisco avendo in questo modo con un impatto straordinario, supportati peraltro da enormi fondi pubblici: organizzano anche numerosi eventi attirando così molta più attenzione verso le loro aziende. È fondamentale farsi notare, ma se ogni azienda agisce individualmente, l’effetto è minimo. Invece, partecipando come parte di un sistema organizzato, aumentano significativamente le possibilità di attrarre capitali, creare alleanze, sviluppare prodotti.

Cosa comporta questo processo?
È chiaro che dobbiamo essere riconosciuti per il nostro valore. Anche se a livello di ricerca
potremmo non essere esattamente al livello degli americani, il nostro costo è decisamente
inferiore, circa il 40% in meno. Il nostro valore, però, non è certo inferiore del 40%. In effetti, il rapporto qualità/prezzo della nostra ricerca è estremamente vantaggioso. È fondamentale comunicare e spiegare questo vantaggio. Dopotutto, gli investitori sono esseri umani, e come tali hanno bisogno di potersi fidare delle persone e delle organizzazioni su cui stanno investendo. È necessario che vedano, conoscano, visitino, studino, facciano domande e rianalizzino il tutto. Solo dopo aver costruito questa fiducia si può procedere con un investimento o una collaborazione. È un passaggio cruciale.

A che punto siamo?
Per parafrasare una nota frase attribuita a Kissinger: se l’America dovesse chiamare il biotech in Italia, con chi dovrebbe parlare? Ecco, noi stiamo cercando di dare una risposta a questa domanda, stiamo creando un sistema per chi vuole rivolgersi all’Italia nel settore biotech. Finalmente abbiamo la nostra ARPA-H, ovvero la Fondazione ENEA Tech and Biomedical e la nostra National Security Commission, ovvero il tavolo nazionale per la transizione delle biotech.
Ora chi chiama ha un interlocutore.

Nel settore delle ATMP c’è un serio problema di sostenibilità economica, almeno per quelle che riguardano malattie rare o ultrarare. Il caso Holostem è l’ultimo esempio.
La questione chiave qui, ovviamente, è se questa azione porterà a un guadagno finanziario o meno.
Io non conosco Holostem e quindi non posso esprimere un giudizio di merito, ma è chiaro che qui c’è un problema di fondo. Dobbiamo accettare l’idea che, in qualche modo, le terapie per le malattie monogenetiche rare, o super rare o super rarissime, sono state de facto un proof of concept di una tecnologia. Guardiamo ad esempio Strimvelis, che tratta circa 20 pazienti all’anno. Dal punto di vista scientifico è indubbiamente stato un successo, avendo peraltro aperto la strada anche a Genenta o società come Altheia Science. Però, dal punto di vista della sostenibilità economica queste terapie non sono pienamente sostenibili perché il numero di pazienti è troppo limitato. Non sono informato sulla situazione specifica di Holostem ma anche in quel caso, pur avendo grandi tecnologie e competenze capaci di creare un know-how molto interessante, rimane la scommessa sul mercato disponibile. Adesso la terapia cellulare e la terapia genica stanno entrando in una fase 2, spostandosi dalle malattie genetiche rare a quelle autoimmuni e oncologiche, dove le possibilità sono enormi. È chiaro che c’è anche un aspetto etico: anche se i pazienti sono pochi si può salvare loro la vita ma non possiamo immaginare che siano le company a sostenere questo onere, dovrebbero in questi casi intervenire le istituzioni pubbliche.

Genenta, invece, che strategia ha?
La nostra strategia è ”tumor agnostic”, vale a dire che non ci concentriamo su un singolo tipo di tumore, ma sviluppiamo un prodotto mirato più in generale ai tumori solidi. Abbiamo già dimostrato l’efficacia del nostro prodotto in questo campo iniziando con il glioblastoma, un tumore particolarmente aggressivo e difficile da trattare. Abbiamo scelto questa via per diverse ragioni: c’è un maggior numero di pazienti disponibili, il sistema immunitario è funzionante e sul mercato c’è un vuoto enorme. Ora che abbiamo dimostrato la sicurezza iniziale e l’attività biologica del prodotto, ha senso estendere la ricerca ad altre indicazioni tumorali, come il carcinoma renale e il cancro alla vescica. Il prodotto era progettato fin dall’inizio per essere applicabile il più ampiamente possibile, partendo da una base che già di per sé copre un numero di pazienti e un mercato molto più ampio rispetto a quello delle malattie rare. Un prodotto approvato sul glioblastoma, ad esempio, sarebbe un blockbuster, capace di generare oltre un miliardo di euro per anno e migliorando la vita di moltissime persone.

A parte le strategie commerciali delle singole aziende, cosa si può fare per migliorare la sostenibilità del settore?
Un insegnamento della pandemia è stato che le autorità sanitarie possono agire più
rapidamente nel percorso di approvazione dei prodotti. Uno dei temi fondamentali delle terapie cellulari e geniche è che, anche per prodotti ormai stabiliti, la produzione, il rilascio e i test richiesti dalle autorità richiedono molto tempo. Per esempio, mentre la produzione delle cellule può richiedere solo alcune ore, il processo di rilascio può durare fino a settimane. Questo accade perché, nonostante l’esperienza accumulata in centinaia di trattamenti, è necessario eseguire numerosissimi altri test che richiedono tempo e aumentano i costi.
Per rendere queste terapie più accessibili e ridurre i costi, dobbiamo puntare a due obiettivi
principali. Primo, il manufacturing deve diventare più industrializzato e veloce. Secondo, il
processo di regolamentazione e test da parte delle authority dovrebbe essere semplificato o
accelerato. Se potessimo ridurre il tempo di rilascio da settimane a pochi giorni, il costo del
farmaco potrebbe scendere notevolmente rendendo il trattamento accessibile a più pazienti.
Questa è una vera rivoluzione che deve avvenire sia a livello industriale, nel processo di
produzione, sia a livello regolatorio, nella semplificazione delle procedure.