Molti progetti di innovazione nel settore della salute sono geniali. Racchiudono dentro di loro opportunità inesplorate, sono tempo e vita per persone affette da malattie che non hanno cura. Il fatto che vedano o meno la luce del sole, o più concretamente i riflettori del mercato, dipende soprattutto dalla loro capacità di attrarre investimenti.
Per parlare dei modelli di finanziamento del trasferimento tecnologico (TT) abbiamo intervistato Alessio Beverina, founder e managing partner di Panakès (società di venture capital) e segretario generale di Italian Tech Alliance.
Il report BioInItaly traccia la descrizione di un comparto biotech vivo e vitale, in particolare in ambito healthcare. Qual è attualmente il filone di investimento più promettente nel settore life science?
Il report di BioInItaly ha rappresentato il biotech come un’eccellenza italiana, con un gran numero di imprese; realtà estremamente attive, forti in produzione (ricordo che l’Italia è prima, davanti a Germania e Francia, nella produzione di farmaci) e ricerca.
Invece, nel nostro Paese il mondo delle startup nelle scienze della vita è ancora nella sua infanzia. I primi finanziamenti consistenti da parte di venture capital di queste startup risalgono a soli 5-10 anni fa.
La raccolta di capitali è ancora piuttosto limitata se confrontata con il resto d’Europa o del mondo: da noi le startup nelle scienze della vita hanno raccolto nel 2021 un centinaio di milioni di euro, in Francia oltre un miliardo, in UK due miliardi e negli USA siamo oltre i 60 miliardi.
Esistono diversi settori di eccellenza, primo fra tutti quello della gene therapy, (dove il Gruppo San Donato e il mondo Telethon sono molto attivi), e inoltre la robotica chirurgica e la diagnostica.
Questo contesto riduce l’opportunità di tradurre le scoperte in soluzioni ai problemi reali delle persone: cosa potremmo fare per migliorare la situazione?
Si può fare ancora tanto. E lavoriamo in seno a Panakès, ma anche a Italian Tech Alliance, per far sì che la situazione continui a migliorare. Certamente negli ultimi anni la situazione è migliorata, anche se siamo lontani dagli altri Paesi europei simili all’Italia e agli USA. Mi permetta però una nota positiva. Negli ultimi 5-6 anni, il governo italiano, la Commissione europea e gli investitori istituzionali e privati si sono resi conto dell’importanza di finanziare l’innovazione.
Questa consapevolezza ha portato alla creazione di fondi di venture capital dedicati al comparto life science, quali Sofinnova-Telethon, Indaco Venture, Genextra, Claris Venture e Panakes, oltre alle attività di CDP Venture Capital (con investimenti diretti e in fondi).
Tutto ciò permetterà il finanziamento di numerose startup nel settore, a cui certamente seguiranno investimenti di fondi stranieri, fondamentali per permettere lo sviluppo del prodotto, rispondere alle esigenze di cura e creare dei leader di mercato.
Persistono però molte problematiche, che devono essere risolte se vogliamo far diventare il nostro Paese un campione nello sviluppo di nuovi farmaci e medical device, oltre che nella produzione.
Ad esempio?
Il primo fattore su cui lavorare è il TT Office. Oggi se ne occupano tante istituzioni, ma con un profilo essenzialmente amministrativo e poco orientato a creazione di valore, con possibilità di creare startup o licenze ai grandi gruppi industriali: il governo sta lavorando alla selezione di un certo numero di centri di TT che si affianchino come società esterne ai centri di ricerca.
Non dobbiamo dimenticare, poi, che fino all’inizio di quest’anno vigeva il cosiddetto professor privilege, che attribuiva al ricercatore-inventore tutti i diritti, patrimoniali e non, legati alla proprietà intellettuale del progetto. Un recente decreto ha attribuito la titolarità delle invenzioni realizzate in ambito di ricerca pubblica non più al singolo ricercatore, ma all’ateneo o ente di ricerca.
Questo, insieme ai nuovi TT Office, promuoverà la valorizzazione del brevetto, sia come licenza nei confronti di un grande gruppo industriale che attraverso la creazione di start-up innovative.
E poi c’è la questione del credito d’imposta…
Come Italian Tech Alliance stiamo lavorando con i vari ministeri per riportare il credito di imposta ricerca e sviluppo al 50%, in linea con Paesi come Francia, Germania e UK. Vorremmo anche che questo credito possa essere compensato, attraverso la vendita o il rimborso da parte dello Stato dei capitali investiti.
Spesso le startup innovative non hanno fatturato né profitti e, di conseguenza, non pagano tasse: si ritrovano quindi con un forte credito ma senza la cassa necessaria allo sviluppo. Mi lasci però dire che un altro fattore critico è quello delle complessità amministrative connesse alla realizzazione degli studi clinici.
Lo snellimento delle procedure sarebbe determinante sia per la startup, che avrebbe l’opportunità di allestire il trial nel proprio Paese, che per il centro di ricerca e per i pazienti, che avrebbero accesso a terapie innovative.
Il deep tech, in particolare, spesso fatica a raccogliere finanziamenti, a causa della complessità dei progetti, del lungo time-to-market e dei costi elevati: come si potrebbe garantire maggior supporto al TT di queste imprese?
Contrariamente a quanto avviene nel digitale, dove i prodotti vengono sviluppati più rapidamente, nel deep tech le complessità rallentano il percorso di sviluppo, che può richiedere investimenti ingenti (di venture capital, imprenditore, business angel o altro) e molti anni di lavoro.
Parliamo oltretutto di società che non necessariamente fanno fatturato, e quindi profitto: è quindi necessario trovare modalità di finanziamento intelligenti. I primi step nella technology readiness sono quelli più lunghi e onerosi.
Sul modello di altri Paesi, dovremmo anche noi spingere i ricercatori a ottenere dei grant o avere accesso a finanziamenti per l’ottenimento di una proof of concept: soluzioni che permettano di raggiungere un TRL relativamente avanzato e che minimizzino il rischio dell’investimento.
Il nostro tessuto aziendale biotecnologico è costituito soprattutto da microimprese: quali sono le caratteristiche che mettono in grado una piccola startup di competere a livello internazionale?
In tutti i settori, biotech compreso, il tessuto italiano è composto da microimprese, che non sono tutte startup. Le startup sono realtà che hanno l’obiettivo di arrivare a un prodotto ad alto livello di innovazione. Devono realizzare un buon prodotto, ragionare con una mentalità internazionale (e quindi essere molto ambiziose), avere la capacità di targhettare mercati significativi e crescere come struttura.
Di solito, il team è inizialmente composto da un nucleo di ricercatori con profilo altamente scientifico che non ha necessariamente al suo interno capacità manageriali e di business.
Gli sforzi non devono essere orientati solo nello sviluppo del prodotto ma anche in attività come il design degli studi clinici e le relazioni istituzionali con i regolatori. Per far sì che queste microimprese diventino veri leader, bisogna dunque strutturarle anche a livello di team.
A suo parere, lo snellimento delle procedure per la creazione di spin-off potrebbe essere un modo per frenare la fuga delle menti brillanti dall’Italia?
Sì, anche se di per sé la creazione di startup non è complicata, è un task amministrativo. L’aspetto complicato è far sì che la start-up riceva i finanziamenti necessari allo sviluppo del suo prodotto. Quindi, non mi limiterei semplicemente allo snellimento delle procedure amministrative e burocratiche, ma creerei un ecosistema di investitori che conoscano il settore e che possano assumersi il rischio, che sia connesso ai centri di ricerca, che includa consulenti esperti nei singoli ambiti (regolatorio, clinico ecc.) o CRO.
Bloccare la fuoriuscita dei cervelli dal Paese è complicato, soprattutto perché da noi un post-doc guadagna significativamente meno che in altri Paesi europei. La possibilità, per il ricercatore, di creare una startup e detenere quote di una società promettente può contribuire a trattenere i cervelli in fuga. Un esempio è quello dell’Istituto italiano di tecnologia, che è riuscito a portare in Italia anche ricercatori stranieri grazie a questo tipo di progetti.
Certo, è necessario che il ricercatore non si concentri unicamente sulle pubblicazioni scientifiche, ma consideri l’ipotesi di realizzare un brevetto e, perché no, una startup. In molte università straniere uno dei parametri determinanti per la carriera di un ricercatore, oltre alle pubblicazioni scientifiche su riviste ad alto IF, è costituito dal numero di brevetti e di start-up che ha fatto partire.
L’attività di Panakès, inizialmente focalizzata nel medtech, si è estesa al biotech, con la creazione del Purple Fund. Quali obiettivi intendete raggiungere negli aspetti più critici per la vita delle persone, come le malattie incurabili?
Abbiamo creato il primo Fondo “Panakès” nel 2016, del valore di 76 milioni di euro; nel 2021 abbiamo raccolto il secondo Fondo “Purple”, più che raddoppiando i capitali a oltre 150 milioni.
Questo in parte è legato all’allargamento del nostro focus dall’ambito Medtech (medical device, digital health e surgical equipment) alle biotecnologie, spinti dalla consapevolezza che in Italia c’era un potenziale enorme ancora poco riconosciuto da fondi di venture capital.
L’obiettivo è dare alle startup, ai ricercatori e agli imprenditori i capitali e gli aiuti, attraverso le nostre competenze e network, necessari al loro sviluppo. Panakès ha un approccio assolutamente opportunista: cerchiamo una tecnologia unica, ben brevettata, sviluppata da un team di ricercatori di altissimo livello che risolva un problema medico che ancora privo di soluzione.
Speriamo, sia per i ritorni finanziari del fondo sia per l’impatto sulla vita dei pazienti, che i progetti che abbiamo finanziato arrivino al mercato e diano una soluzione alle malattie ancora senza cura.