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Da strumento di controllo a fattore di dissesto

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Da strumento di controllo a fattore di dissesto
payback

Quello che era stato originariamente previsto come strumento di controllo della spesa si è trasformato in una minaccia per un intero settore industriale e per la stessa Sanità. Ci riferiamo, come è facile capire, al payback, il meccanismo che impone il versamento da parte delle aziende fornitrici di dispositivi medici degli importi dovuti allo sforamento dei tetti di spesa per gli anni 2015-2018. La somma in questione corrisponde al 40% per l’anno 2015, al 45% per il 2016 e al 50% della spesa in eccesso effettuata dalle Regioni dal 2017 in poi. 

Già investito da polemiche in ambito farmaceutico, il payback sta scatenando, per le sue temute conseguenze, un ancor più folto vespaio di critiche nel mondo dei medical device. Le associazioni di categoria delle aziende fornitrici hanno in più occasioni, anche con lettere aperte al presidente del Consiglio Giorgia Meloni, messo in evidenza gli aspetti più iniqui della normativa in questione, che impone che i superamenti dei tetti di spesa da parte delle Regioni ricadano sulle aziende vincitrici di gara, scevre da responsabilità in merito.

Com’è nato il payback

La genesi di questa intricata questione risale all’approvazione della Legge 111/2011 art. 17, di conversione del Decreto legge 98/2011. È stato, però, con l’art. 9-ter del Decreto legge 78/2015 (convertito nella Legge 125/2015) che si è disposto che una parte dello sforamento del tetto per l’acquisto dei dispositivi medici fosse posta a carico delle aziende fornitrici, introducendo di fatto il payback.

 “Ciascuna azienda fornitrice concorre alle predette quote di ripiano in misura pari all’incidenza percentuale del proprio fatturato sul totale della spesa per l’acquisito di dispositivi medici a carico del Servizio sanitario regionale”

d.l. 78/2015, art. 9-ter comma 9

Il comma 557 della Legge di Bilancio 2019 ha poi stabilito che il superamento del tetto di spesa debba essere definito con un decreto del ministero della Salute che, di concerto con il ministero dell’Economia e delle Finanze, entro il 30 settembre di ogni anno certifichi (prima in via provvisoria e poi in via definitiva) gli scostamenti. Originariamente fissato al 5,2% del Fondo sanitario ordinario (FSO), il limite è stato successivamente spostato al 4,9%, al 4,8% fino alla stabilizzazione al 4,4% nel 2014. 

Come mai se ne parla solo oggi

L’articolo 9-ter del Decreto legge 78/2015 è rimasto a lungo inattuato, fino all’approvazione del Decreto legge 115/2022 (Decreto Aiuti bis, convertito nella Legge 142/2022). Il provvedimento ha accelerato le procedure di ripiano attraverso l’introduzione del comma 9-bis, che fissa il limite temporale (al 15 ottobre 2022) in cui il ministero, d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni, deve adottare linee guida per la redazione delle richieste di ripianamento alle aziende fornitrici. Tali linee guida sono state adottate con il decreto del ministero della Salute del 6 ottobre 2022. A seguito dell’approvazione del Decreto Aiuti bis, le imprese italiane sono tenute a versare una somma pari a 2,2 miliardi, certificata dal decreto del ministero della Salute del 6 luglio 2022. Ma si tratta solamente della prima tranche di versamenti: complessivamente, l’ammontare del rimborso per l’intero periodo 2015-2020 è pari a 3,6 miliardi e 616 milioni di euro.

La normativa stabilisce che, una volta decorsi i termini per il pagamento, i debiti per gli acquisti detenuti dalle singole Regioni siano automaticamente posti in compensazione con i crediti che le singole imprese hanno maturato.

Carenze di dispositivi essenziali e perdita di posti di lavoro

Come sottolineato più volte da parte del presidente di Confindustria Dispositivi Medici, Massimiliano Boggetti, il payback rischia di minare le sorti del comparto medtech italiano. Le stime dicono che la minaccia è estremamente seria per più del 90% delle aziende sul territorio e che i posti di lavoro a rischio sono oltre 112.000.

Non è difficile capire come questo scenario possa incidere sulla sicurezza delle forniture alle strutture sanitarie. La chiusura delle imprese più fragili eliminerebbe dal mercato prodotti essenziali e interromperebbe il ciclo virtuoso dell’innovazione che ha caratterizzato il settore negli ultimi decenni. L’industria dei dispositivi medici, infatti, annovera grandi aziende ma anche realtà di piccole e piccolissime dimensioni. 

La scelta di imporre tetti di spesa molto bassi avrebbe, inoltre, come conseguenza la riduzione della qualità dei dispositivi medici, proprio in una fase storica nella quale la sanità italiana deve ancora riprendersi dalla terribile tempesta pandemica e si prepara a nuove ondate di contagio.

La valanga dei ricorsi

Il profilarsi all’orizzonte della scadenza prevista per il pagamento in assenza di interventi da parte del Governo ha scatenato una raffica (oltre 400) di ricorsi al TAR da parte delle realtà del comparto biomedicale, allo scopo di contestare l’illegittimità del provvedimento per incostituzionalità e incompatibilità con i principi comunitari e violazione di altre norme di legge. 

Da più parti si è ricordato che il payback è un meccanismo esistente anche per i farmaci, nell’ottica di spegnere la polemica. Tuttavia, i produttori sostengono che i contenziosi sono all’ordine del giorno anche nel settore farmaceutico e che, in ogni caso, il sistema delle gare effettuate per l’acquisto dei medicinali procede secondo meccanismi diversi rispetto a quelle per i dispositivi medici. Un ulteriore elemento paradossale che caratterizza questo quadro è rappresentato dal fatto che fra quelle che hanno sforato maggiormente i tetti di spesa sono presenti alcune delle Regioni in cui il servizio sanitario è considerato più efficiente, come la Toscana e il Veneto.

La proroga della scadenza per il pagamento

È del 10 gennaio l’approvazione del Decreto legge 4/2023 recante disposizioni urgenti in materia di procedure di ripiano per il superamento del tetto di spesa per i dispositivi medici. Con tale disposizione, su proposta del ministro dell’Economia e delle Finanze, Giancarlo Giorgetti, e del ministro della Salute, Orazio Schillaci, l’esecutivo ha concesso una proroga di quattro mesi (dal 31 gennaio al 30 aprile di quest’anno) per il pagamento da parte dei produttori. Da parte sua, il Servizio bilancio del Senato precisa che il differimento del termine determinerà un aumento dell’indebitamento netto per il 2022. 

Intanto, sulla scia del provvedimento governativo, il TAR del Lazio, di cui era attesa una decisione entro il 17 gennaio in merito alla richiesta di sospensiva del provvedimento da parte delle aziende, ha stabilito di rinviare la decisione ad aprile. Contestualmente ha fissato a giugno un’udienza pubblica che dovrebbe assumere decisione definitiva sulla questione. 

L’impressione predominante è che le istituzioni abbiano compreso la delicatezza della situazione e stiano valutando le possibili conseguenze del provvedimento. Ma il parere di Confindustria Dispositivi Medici non è cambiato: il meccanismo del payback è sbagliato e deve essere cancellato, la proroga è una buona notizia ma spostare in là la decisione non cambia nulla. 

Le possibili evoluzioni

La svolta potrebbe arrivare dalla decisione (politica) di cancellare il provvedimento o di modificarlo nella sostanza. Su questo punto, il ministro Giorgetti ha anticipato un intervento di non ben specificata “manutenzione della normativa”. Non è difficile prevedere la prosecuzione della valanga di ricorsi al TAR di competenza da parte di molte altre realtà medtech italiane, nel tentativo di evitare il fallimento.

A riguardo, Fifo Sanità (Federazione italiana fornitori in sanità, componente di ConfCommercio) chiede l’istituzione di un tavolo tecnico per il superamento della norma, ribadendo l’assoluta estraneità delle aziende fornitrici agli sforamenti e attribuendo alla sola gestione amministrativa delle Regioni la scelta di oltrepassare i limiti imposti alla spesa. Una seconda richiesta avanzata dalle associazioni di categoria è rappresentata dall’innalzamento dei tetti di spesa dal 4,4% al 5,2% sul totale della spesa pubblica.