Come rivela l’Osservatorio sulle terapie avanzate, “attualmente tutte le Car-T in commercio sono ottenute attraverso un processo di produzione centralizzato”: il materiale biologico prelevato dai pazienti viene inviato a “poche officine produttive altamente specializzate” e torna ai pazienti dopo un tempo medio di 16-30 giorni. Questo attesa, però, può facilmente prolungarsi. Secondo Maria Whitman, global lead of pharma and biotech practice presso la società di consulenza ZS Associates, “le complessità della manipolazione e del trasporto di un prodotto biologico, combinate con la lontananza di un laboratorio o di un ospedale, possono aumentare il tempo di giorni, quando non di settimane”.
Abbreviare i tempi
Per i centri situati in Usa, il processo non può nemmeno prendere il via fino a che la compagnia assicurativa che segue il paziente ha fornito la sua approvazione, processo che può richiedere fino a due settimane. Anche i limiti nella capacità produttiva delle aziende specializzate possono incidere: uno studio pubblicato su Frontiers in transplantation afferma che “i pazienti spesso attendono fino a tre settimane per poter accedere a un manufacturing slot, la data in cui l’azienda può ricevere il prodotto biologico per iniziare la produzione di cellule”. Naturalmente, durante questo periodo, le condizioni cliniche di molti pazienti – che sono spesso trattati per malattie molto aggressive, come i tumori – possono sensibilmente peggiorare.
I costi della produzione centralizzata
La produzione centralizzata comporta anche costi molto elevati, in parte a causa della necessità di lunghi trasporti speciali e di conservazione criogenica del prodotto. Secondo diverse stime, il costo di una infusione Car-T negli Usa si aggira intorno ai 4-500.000 dollari, sebbene l’intero trattamento (che include la preparazione, l’infusione, il ricovero ospedaliero e la gestione degli effetti collaterali) può facilmente raggiungere importi significativamente superiori (nel 2019 era stato calcolato fino a un milione di dollari). Si tratta di costi estremamente onerosi per i sistemi sanitari dei Paesi sviluppati ma che diventano proibitivi per la maggior parte della popolazione dei Paesi in via di sviluppo.
Poiché prodotti Car-T approvati e relative indicazioni continuano ad aumentare, gli studiosi sono alla ricerca urgente di soluzioni alternative.
Diversi sistemi di decentralizzazione
Il modello più popolare è il cosiddetto “Point-of-care” (POC), che prevede una produzione delocalizzata nei pressi del centro sanitario dove il paziente riceve il trattamento (se non addirittura al suo interno), riducendo notevolmente i tempi e i rischi associati al trasporto delle cellule. Due ricercatori dell’Harvard Medical School hanno dedicato uno studio – pubblicato su Nature Biotechnology – alla produzione decentralizzata (local manufacturing). Secondo la loro ricerca, questa soluzione “contribuirebbe notevolmente a soddisfare la crescente domanda” ma per garantire un’implementazione di successo è indispensabile sfruttare le nuove tecnologie in modo da garantire una qualità uniforme del prodotto anche in strutture geograficamente disperse.
Il ruolo della digitalizzazione
L’articolo suggerisce l’uso di “sistemi di produzione cellulare automatizzati, sensori in linea e simulazione dei processi per migliorare il controllo della qualità e la gestione efficiente della catena di fornitura”. I tentativi di applicare questa teoria non mancano: la startup Cellares, ad esempio, ha presentato la sua “factory in a box (fabbrica in una scatola)”, un sistema completamente chiuso che utilizza software e robotica per automatizzare la lavorazione delle cellule eliminando la variabilità e il rischio di errore umano. Ori Biotech, invece, sta studiando un sistema robotizzato che integra automazione e analisi dei dati e promette di ridurre il tempo di produzione delle terapie Car-T a soli sette giorni.
I nodi da risolvere
D’altra parte, la presenza di una moltitudine di centri di produzione introduce anche nuovi problemi, ad esempio rende più difficoltoso per le autorità regolatorie effettuare controlli efficaci. Secondo gli autori dello studio su Nature, questo ostacolo potrebbe essere superato coinvolgendo nelle attività di controllo altre organizzazioni, come gli enti di accreditamento: stando ai loro calcoli, negli Stati Uniti ci sono già 116 organismi conformi agli standard necessari. L’agenzia potrebbe a sua volta condurre audit su campioni rappresentativi degli stabilimenti accreditati. Infine, suggeriscono di modificare gli standard normativi “per tenere conto delle caratteristiche uniche dei modelli di produzione distribuita”.