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Pubblicità dei dispositivi medici, cosa cambia con il nuovo regolamento europeo

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Pubblicità dei dispositivi medici, cosa cambia con il nuovo regolamento europeo

Come noto, la pubblicità sanitaria dei dispositivi medici deve rispondere a una serie di requisiti aggiuntivi rispetto a quella afferente ad altre tipologie di mercato. Benché limitanti per il marketing aziendale, questi vincoli rispondono alla necessità di tutele speciali tipiche dei prodotti healthcare.

Recenti, importanti modifiche sono state apportate nel settore dei dispositivi medici, con l’introduzione del nuovo Regolamento europeo (UE) 745/2017, pienamente applicabile dal 26 maggio 2021.

Gli aspetti rilevanti per il mondo delle aziende sono l’argomento centrale dell’intervista che mi ha concesso Silvia Stefanelli, avvocato titolare dello Studio legale Stefanelli&Stefanelli, specializzato in tematiche inerenti il diritto sanitario.

Quali sono le novità del nuovo Regolamento in tema di pubblicità?

L’elemento principale di novità riguarda la stessa introduzione di una disciplina comunitaria sulla pubblicità. Dobbiamo infatti ricordare che su questo aspetto specifico la Direttiva 93/42/ CEE (MDD) non conteneva alcuna disciplina: in fase di attuazione della stessa, il legislatore italiano ha poi introdotto l’art. 21 del Decreto legislativo 46/97, che stabilisce un’architettura giuridica di natura autorizzativa simile a quella del farmaco.

Nel Regolamento (UE) 745/2017, la pubblicità viene invece espressamente disciplinata in un articolo (l’art. 7) denominato “dichiarazioni”, un titolo che esprime il fatto che gli ambiti di riferimento non si limitano alla pubblicità, ma si estendono a tutto quanto viene dichiarato rispetto ai dispositivi medici.

Dunque, se prima potevamo pensare che in carenza di disciplina comunitaria potesse sussistere uno spazio per il legislatore nazionale per emanare una sua disciplina in materia di pubblicità, oggi lo strumento giuridico è cambiato e questo, a parer mio, impone una modifica dello scenario.

In primo luogo, siamo di fronte non più a una direttiva, ma a un regolamento: come tale, una normativa direttamente applicabile in maniera uguale in tutti gli Stati membri che non richiede alcun elemento di attuazione nazionale.

Questa scelta legislativa fornisce oggi una disciplina a livello comunitario che può essere considerata esaustiva e che, a mio parere, non lascia spazio a discipline di natura nazionale.

In secondo luogo, il legislatore comunitario si è espresso su come reputa che debba essere regolata la pubblicità dei dispositivi medici: ciò dovrebbe far riflettere sulla possibilità di mantenere in vita l’art. 21 del D.Lgs. 46/97.

Come potrebbe impattare, nel lungo periodo, l’articolo 7 dell’MDR sulle strategie di comunicazione e marketing delle aziende?

Su questo punto si apre un quesito giuridico. La domanda che tutti si pongono è se l’impostazione dell’art. 21, con il regime autorizzativo e l’apparato di linee guida ministeriali, debba essere completamente mantenuta, sia negli aspetti procedurali (quelli correlati all’autorizzazione) che contenutistici (ovvero i contenuti delle linee guida e i criteri con cui viene rilasciata l’autorizzazione, mutuati dal mondo del farmaco) oppure se si debba abbracciare la tesi giuridica che l’art. 7 abbia fatto venire meno le previsioni legislative in essere a livello nazionale.

Nel primo caso, le previsioni dell’art. 7 MDR si aggiungerebbero come tali alla disciplina nazionale: questa è la posizione assunta dal ministero della Salute nella Circolare 12 novembre 2021.

Nel secondo, che personalmente reputo più fondato giuridicamente, le prescrizioni dell’art. 7 MDR sarebbero le uniche da seguire.

A questo proposito credo sia opportuno un chiarimento: l’art. 7 è molto puntuale e richiama tutti i soggetti coinvolti (non soltanto il fabbricante, ma anche i distributori e i soggetti che semplicemente presentano a voce il prodotto) alla massima coerenza tra le dichiarazioni relative al dispositivo medico e le evidenze scientifiche a esso correlate.

Questo significa che, anche abbracciando la tesi che l’art. 7 abbia fatto venire meno tutto l’apparato autorizzativo, i criteri sono comunque molto stringenti.

Vantando, nell’attività di comunicazione, caratteristiche non supportate da adeguati fondamenti scientifici richiamati nel fascicolo tecnico del prodotto, si andrà comunque incontro alle conseguenze sanzionatorie che verranno stabilite nel decreto in elaborazione (ex art. 15 l.n. 53/2021) o alle sanzioni della più generale disciplina della pubblicità ingannevole.

Peraltro, leggendo le previsioni dell’art. 7 emerge chiaramente il fatto che è una specificazione della disciplina generale sulla pubblicità ingannevole contenuta nel Codice di consumo per i pazienti e nel Decreto legislativo 145/2007 per la pubblicità B2B.

Il MDR sembrava aver fatto decadere anche la necessità dell’autorizzazione ministeriale ma una circolare del ministero ha ribadito che il regime autorizzativo del D. Lgs. 46/97 è compatibile con il nuovo quadro normativo. Qual è il suo parere a proposito?

Personalmente non sono d’accordo con la posizione giuridica assunta dal ministero della Salute, perché ritengo che la valutazione di compatibilità debba essere effettuata sulla base di principi giuridici precisi espressi dalle sentenze comunitarie.

A mio parere un regime autorizzativo come quello cui fanno riferimento l’art. 21 del Decreto 46/97 e le linee guida ministeriali non può essere considerato compatibile con la normativa europea perché molto restrittivo anche dal punto di vista della libera circolazione delle merci e dei servizi.

Non dobbiamo dimenticare che la pubblicità è attività d’impresa ex. art. 41 della Costituzione, attiene all’area della libera circolazione dei servizi comunitari ed è elemento di assoluto rilievo in materia di concorrenza.

Sotto questo profilo, io reputo il regime nazionale molto restrittivo e ritengo che tale restrizione non sia “giustificata” (secondo i principi comunitari) sotto il profilo della tutela della salute pubblica. In generale, infatti, agli Stati membri non è proibita l’introduzione di limitazioni alla normativa europea, ma qui siamo in presenza di un regolamento strutturato e armonizzato.

In questo contesto non è in assoluto vietato introdurre limitazioni a livello nazionale ma occorrerebbe specificarne gli obiettivi, la ratio, la posizione giuridica che questi vincoli aggiuntivi consentono di proteggere. Peraltro, a differenza degli altri Paesi, noi abbiamo un identico regime autorizzativo per la pubblicità dei dispositivi medici, indipendentemente dalla classe di appartenenza e dal rischio che possono provocare alla salute dei pazienti.

Dunque, un’opzione potrebbe essere quella di limitare i vincoli aggiuntivi solo ai dispositivi di classe superiore, quelli correlati a un rischio maggiore. In questo caso sarebbe chiara la volontà del legislatore italiano di rispondere all’esigenza di una tutela collettiva.

Peraltro, la circolare di novembre 2021 a cui lei faceva riferimento è molto scarna e non fornisce giustificazioni a sostegno della compatibilità fra la disciplina comunitaria e quella nazionale.

Crede che il provvedimento intenda prevenire il rischio di discrezionalità nell’interpretazione della norma?

Ritengo di no. Analizzando la disciplina sulla pubblicità ingannevole, oggi contenuta nel “Codice del consumo”, risulta evidente l’analogia con l’art. 7, anche dal punto di vista terminologico.

Oggi, tutti i regimi pubblicitari sono, in ambito comunitario, liberi e soggetti a controllo successivo, secondo una disciplina che prevede sanzioni anche molto pesanti per le aziende.

La scelta giuridica fondamentale è fra due alternative: l’imposizione di un regime preventivo (autorizzazione) oppure il ricorso a uno strumento legislativo di controllo successivo.

Personalmente, credo che la pubblicità dei dispositivi medici (trattandosi di prodotti di area sanitaria) debba rispettare criteri molto stringenti, essere soggetta a un controllo molto puntuale e a eventuali sanzioni, anche gravi, ma non sono d’accordo sulla necessità di un’autorizzazione preventiva.

Peraltro, ritengo che se il legislatore comunitario avesse reputato necessario un regime autorizzativo, l’avrebbe introdotto nel nuovo Regolamento, al pari di quanto avvenuto nelle direttive sul farmaco.

Ritengo inoltre che, nel contesto di un mercato unico, sia penalizzante, anche sotto il profilo della concorrenza, sottoporre le aziende italiane a un regime autorizzativo in un quadro giuridico in cui merci e servizi circolano liberamente, anche online. Questo poteva essere adeguato in altre epoche storiche, ma non in quella attuale, nella quale l’organizzazione stessa del mercato, anche nei suoi canali online, ne rende la gestione molto complessa.

Quali ritiene siano gli aspetti normativi più critici della pubblicità sanitaria sui canali social?

I social media sono quanto di più mobile e modificabile ci possa essere. Un regime giuridico statico come quello autorizzativo stride se applicato a strumenti progettati secondo una logica di dinamismo: è proprio l’architettura giuridica scelta, a mio parere, a non essere al passo con i tempi, oltre a non essere conforme con il quadro legislativo comunitario.

Detto questo, siamo tutti ben consapevoli dei possibili rischi correlati alla pubblicità non corretta o non trasparente e certamente l’adozione di un regime preventivo consente di controllare a priori il messaggio e prendersi del tempo per valutare le sue possibili ripercussioni sulla salute pubblica.

Ma si tratta di un sistema molto stringente e limitante, che può impattare negativamente sulle aziende italiane, che si trovano ad agire all’interno di un mercato molto competitivo. In quest’ottica, io credo che occorrerebbe introdurre un controllo successivo pensato in maniera completamente diversa e strutturato sulla base di altre dinamiche.

Il quadro europeo della pubblicità, in generale, è armonizzato?

Dal punto di vista europeo, la pubblicità ha cominciato a essere disciplinata con la Direttiva 84/450/CEE sulla pubblicità ingannevole, che ha trovato applicazione sia al B2C che al B2B. Successivamente, il percorso normativo si è biforcato. Da un lato, è sopravvissuta la Direttiva 2006/114/CE per gli aspetti concernenti la pubblicità B2B, attuata in Italia dal Decreto legislativo 145/2007.

Dall’altro, la pubblicità al consumatore è stata assorbita all’interno della più ampia Direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali, che ricomprende al suo interno anche la pubblicità, da intendersi come messaggio avente finalità promozionali.

Esiste una disciplina specifica sulla pubblicità nei canali social?

No. E non potremmo, a mio parere, neanche averla. Ma tutti i principi giuridici generali di correttezza, trasparenza e veridicità della disciplina pubblicitaria vengono applicati anche ai social.

Dobbiamo precisare che i social media sono solo un mezzo per veicolare pubblicità e, come tali, vengono normati con gli stessi strumenti giuridici di tutti gli altri canali di comunicazione. Il controllo non dipende, infatti, dal mezzo ma dal contenuto del messaggio pubblicitario.

Regolamento (UE) 745/2017 – Articolo 7

Nell’etichettatura, nelle istruzioni per l’uso, nella messa a disposizione, nella messa in servizio e nella pubblicità dei dispositivi medici è proibito il ricorso a testi, denominazioni, marchi, immagini e segni figurativi o di altro tipo che potrebbero indurre l’utilizzatore o il paziente in errore per quanto riguarda la destinazione d’uso, la sicurezza e le prestazioni del dispositivo:

  • attribuendo al dispositivo funzioni e proprietà di cui è privo;
  • creando impressioni errate riguardo al trattamento o alla diagnosi, a funzioni o a proprietà di cui il dispositivo è privo;
  • omettendo di informare l’utilizzatore o il paziente circa un rischio potenziale associato all’uso del dispositivo secondo la sua destinazione d’uso;
  • proponendo usi del dispositivo diversi da quelli dichiarati parte della destinazione d’uso per cui è stata svolta la valutazione della conformità.

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