Curare è una cosa da donne

La farmaceutica punta da tempo sulle donne, tanto da essere diventata, negli ultimi anni, uno dei settori industriali con i parametri di inclusione più lusinghieri. Ma non è sempre stato così

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Donne nel pharma: disegno di donne studiose

Sfogliando i libri di storia della farmacologia e gli annali delle riviste di economia del settore è più che raro imbattersi in nomi femminili. Eppure, oggi, non sono più una rarità le donne nel pharma, come in altri ambiti scientifici. Ma le loro storie sono ancora poco raccontate: partiamo da una, che possiamo ritenere paradigmatica.

Si dice che ci sia un uomo persino dietro la scelta di dedicarsi alla chimica farmaceutica di Gertrude Belle Elion, vincitrice del premio Nobel per nel 1988 per i suoi studi sull’aciclovir, che portarono alla scoperta dell’AZT. Premio che, neanche a dirlo, ha condiviso con altri due uomini, George Hitchings e James Black.

Fu, secondo le cronache, la morte del suo fidanzato poco prima del matrimonio a convincerla a dedicarsi allo sviluppo di nuovi medicinali che potessero migliorare gli standard di vita dell’umanità.

Quando abbiamo iniziato ad avere risultati sotto forma di nuovi farmaci che soddisfacevano le reali esigenze mediche e recavano benefici ai pazienti in modi molto visibili, la gioia nel vedere i nostri sforzi ricompensati è stata incommensurabile

Gertrude Belle Elion

Dopo la laurea e il Master in chimica, Elion iniziò a lavorare per la Burroughs Wellcome. Lì si dedicò allo studio delle peculiarità biochimiche che distinguono, dal punto di vista del metabolismo degli acidi nucleici, le cellule umane da quelle tumorali e dai patogeni. Queste ricerche hanno cambiato per sempre lo sviluppo dei chemioterapici.

La sua instancabile attività di ricerca e scoperta è costellata di brevetti farmaceutici (45) e lauree e dottorati honoris causa (25).

Non di sola chimica si alimenta la cura

Altre donne nel pharma hanno saputo portare un contributo allo sviluppo di nuove cure anche quando impegnate in attività meno scientifiche e più manageriali.

Deve essere stato un commitment di questo tipo a motivare la scelta di Alice Keller di entrare in Roche dopo la laurea in Economia politica. Trasferitasi negli anni ’20 dal quartier generale di Basilea alla fiammante sede di Tokyo, la Keller scalò tutti, ma proprio tutti, i gradini del ripido Ziqqurat societario.

Assunta nell’organico nipponico come segretaria, si fece strada occupandosi (va da sé, con successo) di attività amministrative, poi assumendo crescenti responsabilità nella gestione dei bilanci aziendali. Un’attenta promozione delle relazioni con l’headquarter, ciliegina sulla torta, le permise di rientrare in Svizzera nel 1939 come executive director.

È lavorando ai fianchi, modulando il proprio intervento fra dirompenza e mediazione che Margaret Sanger difese i diritti delle donne, anche in termini di accesso all’assistenza sanitaria, fondando il movimento per il controllo delle nascite. Decisa a trovare una soluzione alle morti femminili per aborto clandestino, la Sanger conobbe il biologo Gregory Pincus negli anni ’50 e finanziò, tramite l’associazione, le sue ricerche sugli anticoncezionali. Il risultato? La commercializzazione della prima pillola anticoncezionale, nel 1960.

Donne nella scienza: il gender gap

Donne nel pharma: foto di donna con microscopio, anni '50Il lettore non stenterà a credere che le poche donne che riuscirono a ottenere posizioni di rilievo nella ricerca scientifica abbiano avuto molte più difficoltà rispetto ai colleghi maschi nel farsi ascoltare. Non si sa se per il pronunciato approccio visionario, per i temi scarsamente considerati che promuovevano oppure per un ostruzionismo aprioristico.

Sta di fatto che fra le scienziate meno ascoltate ci sono quelle più impegnate sui temi della salute della donna e del bambino. Come Utako Okamoto, a cui Lancet ha dedicato una monografia. Un’attenzione legittimata dalla scoperta dell’acido tranexamico, un antifibrinolitico che ha salvato la vita di molte puerpere per la sua azione di prevenzione delle emorragie post-partum.

I suoi risultati sul campo non furono, però, accolti con l’entusiasmo che meritavano. La storia racconta che il perfezionamento dello sviluppo e la sottomissione alle procedure autorizzative furono ostacolate a tal punto che la commercializzazione del farmaco avvenne molti anni dopo.

Donne nel pharma moderno: ai vertici delle aziende

Nella farmaceutica di oggi spicca per fulgore la carriera di Emma Walmsley, Ceo di GlaxoSmithKline. Non solo una delle più potenti tra le donne nel pharma mondiale, ma anche tra le business women di maggior successo nel Regno Unito. Se la immaginate inflessibile e “sposata” con il lavoro, sappiate che Walmsley ha un marito in carne e ossa e quattro figli.

Grande istinto per gli affari anche per Susanne Schaffert, presidente di Novartis Oncology. Questa divisione produce da sola quasi la metà delle revenue di tutta l’azienda, anche grazie alla commercializzazione delle CAR-T.

Anche in Italia la presenza femminile nell’industria dei farmaci non latita. Tra le donne nel pharma italiano possiamo citare: Nicoletta Luppi che è dal 2015 a capo di MSD, Monica Poggio che ricopre la stessa carica in Bayer, Emma Charles in BristolMyersSquibb e Rita Cataldo in Takeda. E i fratelli Aleotti hanno individuato nell’ingegnere turco (donna) Elcin Barker Ergun le caratteristiche vincenti dell’amministratore delegato in grado di portare il Gruppo Menarini all’internazionalizzazione.

Il contributo femminile in un settore cruciale

Se l’industria farmaceutica in generale attinge a piene mani al talento femminile, lo sviluppo e la produzione dei vaccini non sembra poterne fare a meno.

BioNTech, che ha sviluppato il primo vaccino autorizzato contro la Covid-19, è stata fondata da una donna. Özlem Türeci, turca, un fiuto incredibile per gli affari, aveva già creato nel 2001 la Ganymed Pharmaceuticals, venduta 15 anni dopo ad Astellas Pharma per 1,4 miliardi di dollari. Oggi il valore di BioNTech supera i 30 miliardi di dollari.

E chi può esserci dietro la tecnologia vincente di BioNTech, se non una donna? Katalin Karikó, nata nell’Ungheria della cortina di ferro, ha per anni collezionato lettere di rifiuto alle richieste di finanziamento per i suoi lavori. Fino a quando un’intuizione geniale permise a lei e al suo collaboratore Drew Weissman di arrivare allo sviluppo dei vaccini a mRNA.

Anche l’Asia ha la sua Most powerful woman, Chen Wei, che, tolta la sua divisa pluridecorata da generale dell’esercito cinese, ha guidato la sperimentazione del vaccino sviluppato da Cansino Biotechnologies e dall’Istituto di Medicina Militare.

Donne e Nobel (anche quelli che non arrivano)

Decisamente più nota la storia di tre donne il cui impegno nella ricerca è strettamente legato all’Accademia Svedese.

Marie Curie di riconoscimenti da Stoccolma ne ricevette ben due: per la Fisica nel 1903 e per la Chimica nel 1911. La prima donna a vincere un Nobel, la prima persona a guadagnarne due, la prima a mietere successi presso la Svenska Akademien in due discipline diverse. E la prima donna ad ottenere una cattedra alla Sorbona di Parigi. Un curriculum da far tremare i polsi… Ha divorato i 66 anni di vita che le sono stati concessi, consacrata al rigore scientifico al punto tale da snobbare l’invito del re per la consegna del Premio per non lasciare l’amato laboratorio.

Più longeva Rita Levi Montalcini, costretta giovanissima a subire il crudele effetto delle leggi razziali, che l’allontanarono dagli ambienti accademici, aggiungendo paradossale motivazione al suo impegno negli studi. Allestendo un laboratorio casalingo, non interruppe le ricerche sul sistema nervoso. Il Nobel per la scoperta dell’NGF era ancora lontano (sarebbe arrivato nel 1986), ma le basi erano gettate.

Meno fortunata, dal punto di vista dei riconoscimenti ufficiali, Rosalind Franklin, che confezionò gran parte delle prove sperimentali che permisero a Francis Crick e James Watson di acciuffare nel 1962 l’ambito premio per la scoperta della struttura a doppia elica del DNA.

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