Stando al piano d’azione del Parlamento europeo per la parità di genere, gli squilibri tra donne e uomini nella forza lavoro costeranno il 26% del PIL mondiale 28 trillioni di dollari nel 2025. Donne e leadership è dunque una questione cruciale da risolvere, non solo dal punto di vista di inclusione ma anche in ottica di crescita economica.
Secondo uno studio di McKinsey, le aziende con più del 30% di donne nei loro team esecutivi tendono a sovraperformare rispetto a quelle in cui questa quota è minore (tra il 10% e il 30%). Queste ultime, a loro volta, ottengono risultati mediamente superiori alle imprese che contano ancora meno donne dirigenti (o semplicemente non ne hanno). Il differenziale di rendimento – pari al 48% – non è affatto marginale.
McKinsey non è l’unica ad aver rilevato queste differenze. Il colosso della finanza Goldman Sachs ha appena presentato un nuovo paniere di aziende europee che impiegano un numero di donne superiore alla media (indicato con GSSTWOMN). Secondo i loro analisti, queste aziende in passato hanno regalato ai loro azionisti performance migliori delle altre.
“Più o meno in ogni periodo dalla crisi finanziaria globale in poi – hanno scritto gli analisti del team guidato dalla European strategist di Goldman, Sharon Bell – un numero maggiore di donne nei ruoli di manager o nei supervisory board è associato ad aziende che sovraperformano il settore”.
Altri studi mettono in evidenza una relazione tra una maggior rappresentanza femminile nei consigli di amministrazione e un comportamento delle aziende socialmente più responsabile.
Donne e leadership: competenze aggiuntive
In genere gli autori delle ricerche sono i primi ad avvisare che – per il momento – si tratta solo di tendenze, di risultati che devono ancora trovare basi scientifiche solide. Ma come sottolinea un editoriale su The Lancet, “è semplice senso degli affari capire che le organizzazioni veramente inclusive dovrebbero aumentare la meritocrazia permettendo a tutti gli individui opportunità simili di fornire il loro contributo”.
La presenza di una solida componente femminile non aggiunge solo una pluralità di competenze e punti di vista ma influenza anche il modo di porsi degli uomini. In ambito politico, ad esempio, la presenza di donne nei gruppi decisionali porta a misure più generose verso le fasce più vulnerabili.
Non solo: secondo Forbes, le nazioni guidate da prime ministre hanno gestito la pandemia meglio delle altre: “Dall’Islanda a Taiwan, dalla Germania alla Nuova Zelanda, queste leader ci stanno regalando un’attraente alternativa per esercitare il potere”. La prestigiosa rivista individua quattro fattori che hanno fatto la differenza:
- il coraggio di rivelare subito la gravità della situazione ai propri cittadini
- la risolutezza nell’affrontare la crisi
- la capacità di utilizzare la tecnologia in modo creativo
- l’empatia.
Viceversa, alcune ricerche mostrano come molte organizzazioni che promuovono norme stereotipicamente maschili – come “non mostrare debolezza” o “mettere il lavoro al primo posto” – presentino bassi livelli di cooperazione, atteggiamenti aggressivi da parte dei capi e tra i colleghi, episodi di molestie sessuali, conflitti lavoro-famiglia, e ripercussioni sulla salute mentale e fisica dei lavoratori. Questa cultura tossica è meno comune nelle organizzazioni con un maggiore equilibrio di genere e con una maggior presenza di donne nei ruoli di leadership.
Poche donne al comando
Tutte queste rivelazioni, comunque, non sembrano per ora impressionare troppo i vertici delle società, che continuano a mantenere i piani alti straordinariamente impermeabili alle diversità. Donne e leadership, insomma, non è ancora un connubio universalmente accettato.
Il fenomeno è innegabile, e i dati delle corporation americane ne danno la percezione (ma i numeri in Italia sono anche peggio). All’entry level la parità di genere viene sfiorata, con le donne che rappresentano il 47%. Ma salendo la scala professionale la presenza femminile si dirada. Le manager sono il 38%, le direttrici il 33%, le vicepresidenti il 28%. La C-suite (il gruppo dei top-executive, i cui titoli iniziano con la parola “Chief”) è composto per l’80% da uomini.
Il settore Healtcare mostra qualche luce in più, ma non troppe. Le donne occupano infatti una posizione su tre nella senior leadership e rappresentano il 30% della C-suite. Tuttavia, mediamente impiegano dai tre ai cinque anni più di un uomo per raggiungere la posizione di Ceo. Il che, forse, spiega perché solo il 13% degli AD è donna.
Un po’ poco per un settore dove le consumatrici prendono l’80% delle decisioni di acquisto e il 65% della forza lavoro è rappresentata da donne.
I fattori che contribuiscono al mantenimento di questa situazione sono molti, soprattutto di natura culturale. Ce lo spiega una donna che il percorso fino all’apice aziendale l’ha completato più volte.
Elena Bottinelli è stata amministratore delegato dell’IRCCS Ospedale San Raffaele dal 2017 al 2021. Inoltre, dal 2005 è amministratore delegato dell’IRCCS Galeazzi di Milano, fa parte dell’Associazione Alumni del Politecnico ed è Mentor del suo programma Mentorship Programme. Nel 2019 la celebre rivista di economia Forbes l’ha annoverata tra le 100 donne italiane di maggior successo.
Può raccontarci come ha affrontato la sfida di dirigere il San Raffaele e che difficoltà ha trovato?
Credo che ciascuna donna posta di fronte a una grande occasione lavorativa, come lo è stato per me la proposta di dirigere l’Ospedale San Raffaele – il primo ospedale di ricerca d’Italia – abbia il dubbio di non essere all’altezza, ma quello che trasmetto nel programma di mentorship del Politecnico di Milano, a cui aderisco, è che le occasioni vanno colte e che se si è stati in grado di laurearsi in Ingegneria al Politecnico si è in grado di gestire qualsiasi problema complesso, accettando le sfide senza paura di sbagliare.
Nel settore healthcare la percentuale di donne si riduce all’aumentare del livello professionale. Cosa ostacola una maggior presenza femminile nei ruoli dirigenziali?
Ritengo che il problema sia tanto più serio tanto più è alto il livello delle donne che si candidano.
Esiste però anche un’autoselezione delle donne che a volte si escludono dal candidarsi a ruoli apicali per un senso di inadeguatezza (spesso frutto del contesto sociale e culturale), oltre alla difficoltà di conciliare lavoro e vita privata. Per questo motivo ho deciso di aderire all’associazione “Donne leader in sanità”, aperto a donne e uomini che desiderano confrontarsi su questo tema ed elaborare iniziative concrete per puntare a raggiungere l’obiettivo di almeno al 40% di donne nel top e middle management delle organizzazioni pubbliche e private operanti nella sanità (come recita il manifesto presentato anche al presidente della Repubblica Mattarella).
Quali sono gli elementi che rendono competente una persona per un ruolo apicale nel settore? E qual è il maggior valore aggiunto che può portare una donna?
Come ha dimostrato la pandemia in questi mesi, la competenza chiesta a chi ha un ruolo dirigenziale nel settore della salute è la capacità di adattare l’ospedale e l’organizzazione agli scenari che cambiano e la gestione delle risorse umane, che sono uno degli asset più importanti in sanità.
Credo che in un’organizzazione la donna manager porti pluralità di punti di vista, equilibrio nelle discussioni e promozione del merito, partendo dal presupposto che l’eccellenza sia raggiungibile solo se tutti i talenti trovano spazio per esprimersi.
L’impressione è che si identifichi ancora troppo la leadership con le caratteristiche del maschio alfa: esiste a suo parere un problema di questo tipo?
Sicuramente esistono dei pregiudizi sulla fragilità o sull’instabilità emotiva delle donne, ma esiste anche una mancanza di esempi di leadership femminile che potrebbero invece rappresentare esempi di competenza, concretezza, capacità di gestire le risorse che secondo tanti studi farebbero recuperare punti di PIL. (Uno studio del Parlamento europeo afferma che azzerando il gender gap si avrebbe una crescita mondiale del 26%).
Come pensa si possa superare la differenza di genere nei ruoli manageriali del settore?
Credo che ci si debba impegnare su diversi livelli. Il primo livello è culturale per cui la promozione di politiche di genere e di inclusione e le sanzioni agli stereotipi devono diventare parte dei percorsi formativi, d’altra parte, e questo è il secondo livello, bisogna chiedere alle aziende di misurare il gender gap e richiedere un piano di implementazione per le politiche con l’obiettivo di raggiungere il 40% delle posizioni di leadership.