L’unione fa la scienza

La cooperazione è imprescindibile nella ricerca scientifica e, per la sua massima efficacia, esige una responsabilità etica. Ai microfoni di Makinglife la senatrice Elena Cattaneo

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Elena Cattaneo
Elena Cattaneo (©2017 Fotografico, Senato della Repubblica)

Dalla sua nascita la scienza progredisce accumulando e combinando il lavoro e le esperienze di molti nel corso del tempo. Ogni nuovo studioso, anziché ricominciare ogni volta da zero, si può appoggiare sul lavoro di chi lo ha preceduto, ampliando così continuamente il corpo generale delle nuove acquisizioni.

Ormai da tempo, e sempre di più nel mondo attuale, le conoscenze non solo vengono trasmesse alle successive generazioni di scienziati, ma vengono condivise in tempo reale tra diversi gruppi, in collaborazioni dove ciascuno contribuisce apportando le proprie competenze, le proprie scoperte, i propri strumenti, fornendo stimoli e soluzioni agli altri. In questo periodo di grandi trasformazioni, le partnership sono centrali e necessarie per l’avanzamento del sapere scientifico.

Di questo parliamo con Elena Cattaneo, professoressa ordinaria all’Università di Milano, ricercatrice sulle malattie neurodegenerative (in particolare la malattia di Huntington) e dal 2013 Senatrice a vita della Repubblica.

Senatrice Cattaneo, che cosa si intende per etica della cooperazione nella ricerca scientifica?

Il Nobel per la medicina Jacques Monod scriveva che quando facciamo ricerca nei nostri laboratori e scopriamo cose che nessuno ancora conosce, lo facciamo sulla base di un impegno tacito e non negoziabile a essere sinceri, a dire come stanno le cose, a riportare i fatti, a difendere per tutti la libertà che permette a ogni idea razionale di essere messa a confronto con le altre e valutata. Questa è la principale sfida dell’etica della scienza: raccontare come stanno le cose intorno a noi, senza omissioni o condizionamenti. Una responsabilità che non viene meno in ambito internazionale, come base dei programmi di cooperazione tra università e centri di ricerca.

Qual è il ruolo della cooperazione nel contesto internazionale?

Ritengo che la cooperazione scientifica sia ormai un elemento essenziale di ogni progetto di ricerca che operi alla frontiera della conoscenza. C’è naturalmente una considerazione di tipo scientifico in quanto spesso è dal confronto che nascono le idee più ambizione e le scoperte più innovative. Inoltre, alcune imprese conoscitive sarebbero fisicamente ed economicamente impossibili da portare a termine senza la collaborazione con colleghi, enti e infrastrutture di ricerca in tutto il mondo. Ad esempio, non sarebbe stato possibile ottenere l’immagine di un buco nero senza i telescopi interconnessi del progetto internazionale EHT sparsi in tutto il mondo, dagli USA al Cile, dalla Groenlandia al Messico, dall’Europa al Polo Sud. Ma c’è anche una dimensione culturale altrettanto importante che deriva dalle conseguenze di una scoperta, che possono rendere necessaria una regolamentazione a livello internazionale nell’interesse dei cittadini.

Nel 2014, in quanto coordinatrice del consorzio europeo NeuroStemcellrepair, insieme al coordinatore del consorzio Transeuro, entrambi dedicati allo studio delle staminali come possibile base per il trattamento di malattie neurodegenerative come Parkinson e Huntington, abbiamo coinvolto ricercatori dal Giappone, Stati Uniti, Regno Unito, Germania e Italia per creare il consorzio globale GForce. L’obiettivo di questa iniziativa era stimolare la collaborazione tra i gruppi che nel mondo lavorano con staminali pluripotenti su queste malattie e condividere gli sforzi, in termini di ricerca, test clinici, confronto con le agenzie di regolamentazione e dibattiti etici, al fine di tradurre eventuali nuove terapie cellulari nella pratica clinica dei pazienti affetti da disturbi neurodegenerativi.

Infine, non bisogna sottovalutare gli effetti “politici” della cooperazione scientifica. Non di rado, iniziative scientifiche che mettono a fattor comune risorse e intelligenze di nazionalità diverse per un fine condiviso riescono a essere fattori di distensione politica internazionale anche tra soggetti e stati tra loro “ostili” per ragioni geopolitiche. Si pensi al Cern, alla moltitudine di nazionalità degli scienziati che vi operano. Creare luoghi in cui ci si possa spogliare dell’appartenenza nazionale per esaltare la dimensione di una comunità globale è un obiettivo prezioso che credo valga la pena di perseguire, soprattutto e con maggior forza quando nel mondo sembrano esser ripresi a spirare nuovi venti di guerra. Del resto la diplomazia della cooperazione scientifica è un “asset” a cui tutti gli stati fanno riferimento anche dotandosi di personale specializzato presente nell’organigramma della rete diplomatica.

Quali sono gli strumenti con cui può essere favorito lo scambio di informazioni? E lo scambio e la mobilità dei ricercatori?

Gli strumenti sono molteplici, sia a livello istituzionale che dei singoli enti: accordi bilaterali, protocolli, consorzi. Ogni iniziativa deve essere la benvenuta perché, in un mondo costantemente interconnesso come il nostro, la collaborazione nella ricerca si tradurrà in un beneficio per tutti. Al di là dei singoli strumenti, lo sforzo in più richiesto dalle nostre istituzioni, politiche e scientifiche, è immaginare scenari futuri e alimentare quei settori che più di altri potranno andare incontro ai problemi del domani: lo studio del genoma, di sistemi più sostenibili e di fonti energetiche alternative sono solo alcuni degli ambiti su cui si aspettano con più urgenza risposte per garantire un futuro di benessere alle prossime generazioni.

Quali sono gli accordi, eventualmente anche a livello politico, che favoriscono la cooperazione? Quali enti e istituzioni possono favorire la cooperazione?

Sempre più spesso la dimensione dei problemi da affrontare sconsiglia l’approccio bilaterale tra Stati, essendo manifesto il disallineamento tra risorse (umane ed economiche) disponibili e l’obiettivo scientifico perseguito. La dimensione europea, per quel che ci riguarda, è l’unità scientifica “minima” a cui fare riferimento.
Ovviamente nulla impedisce – ed è anzi auspicabile – che nell’ambito di programmi macro di collaborazione e cooperazione scientifica si sviluppino forme di collaborazione multilaterali (con specifici progetti, protocolli d’intesa, scambi didattici ecc.) che, attraverso la mobilità di persone e idee, diano gambe a progetti e ricerche che altrimenti, anche se ben pianificate sulla carta, corrono il rischio di non trovare mai la luce.

Ad esempio, in ambito sanitario, come si evince dalla prima relazione biennale sull’attuazione dell’approccio globale alla ricerca e all’innovazione della Commissione europea al Consiglio e al Parlamento europeo del 29 giugno scorso, [la Commissione ha] promosso il coordinamento internazionale degli studi di piattaforme europee finanziate dall’Unione attraverso il consiglio di coordinamento delle sperimentazioni, ha proseguito la cooperazione con l’acceleratore per l’accesso agli strumenti Covid-19 (acceleratore ACT), ha finanziato la ricerca sulla Covid-19 e altre malattie infettive e ha sostenuto la Coalizione per l’innovazione in materia di preparazione alle epidemie (CEPI). L’UE ha istituito il terzo programma del partenariato Europa-Paesi in via di sviluppo per gli studi clinici (EDCTP) come impresa comune nell’ambito di Orizzonte Europa per affrontare le malattie infettive e le emergenze di sanità pubblica nell’Africa subsahariana”.

Esistono ambiti della ricerca scientifica in cui la cooperazione assume un ruolo più importante che in altri?

Ho fatto già l’esempio del consorzio EHT che ha permesso di ottenere le prime e uniche due immagini di un buco nero attraverso radiotelescopi lontani migliaia di chilometri ma puntati verso la stessa sorgente. Restando all’ambito dell’astrofisica, un altro esempio è l’impresa realizzata dai due interferometri Virgo – progetto a sua volta nato da una collaborazione internazionale tra fisici e ingegneri appartenenti a venti diversi gruppi di ricerca europei e localizzato in provincia di Pisa – e LIGO, negli Stati Uniti: insieme hanno permesso di registrare per la prima volta il passaggio di un’onda gravitazionale. Sarebbe stato impossibile per un singolo Paese o gruppo di ricerca raggiungere questi risultati. Così come non potremmo mai conoscere tutti i segreti del Dna umano senza collaborazione fra studiosi. Non a caso il progetto “Genoma umano”, iniziato negli anni ’90, è tra gli antesignani dei programmi di cooperazione scientifica e ancora oggi le scoperte più rivoluzionarie in ambito genomico continuano ad arrivare da consorzi internazionali. L’ultima è quella del pangenoma che permette di confrontare in parallelo un grande numero di sequenze genetiche umane di diverse popolazioni umane per cogliere somiglianze e differenze.

In ambito biomedico sono allo studio piattaforme per la condivisione di dati e cooperazione tra i grossi gruppi, anche tra privato e pubblico. Quando queste piattaforme saranno attive potranno portare a un avanzamento scientifico e a un vantaggio per pazienti e cittadini?

Le piattaforme sono grandi opportunità di conoscenza e avanzamento scientifico ma – specie a valle di collaborazioni tra pubblico e privato – è necessario essere chiari e ragionare bene su ogni aspetto della filiera dei dati di cui si alimentano e della titolarità degli “output” che si generano. I dati, la loro aggregazione, archiviazione, disponibilità e utilizzabilità sono – è notorio – il petrolio della moderna economia. Molto spesso la fonte che ne genera la maggior quantità e sistematicità origina da enti e strutture pubbliche. Se i “giacimenti” di dati pubblici, in particolare quelli sanitari, per essere valorizzati comportano investimenti ingenti che ad oggi solo i privati possono garantire, si pone il problema di come – ferme restando le garanzie di riservatezza del singolo cittadino – costruire un assetto di interessi economici e sociali che siano desiderabili da tutti. Si deve cioè prevedere la possibilità di contemperare l’interesse del privato alla remunerazione dell’investimento con il fine di salute pubblica e avanzamento sociale a cui è preordinata la ricerca scientifica.