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Strada facendo…

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Strada facendo…

Malgrado la relativa brevità della procedura in sé, l’iter del paziente sottoposto a trattamento con Car-T può essere descritto come un percorso lungo e tortuoso. In effetti, si tratta di un intervento terapeutico complesso che viene erogato mediante la somministrazione di un farmaco la cui produzione richiede tempo, competenze dedicate e una disponibilità non irrisoria di risorse economiche.

Il processo inizia con l’identificazione del paziente, che permette di valutarne l’eleggibilità al trattamento, e termina (auspicabilmente) con l’ultimo dei controlli previsti, snodandosi fra la raccolta delle cellule da ingegnerizzare (aferesi), l’allestimento del prodotto e la reinfusione. In particolare, dal momento in cui viene effettuata la linfocitoaferesi a quello dell’infusione trascorre un intervallo che dura dai 17 ai 28 giorni, necessario al manufacturing della terapia. Ogni fase di questo percorso possiede un valore specifico ai fini del successo della terapia e della minimizzazione delle complicanze correlate e deve, pertanto, essere realizzata secondo standard di qualità elevatissimi.  

Di estrema importanza, in quest’ottica, anche il livello di coordinamento fra ogni step e il successivo, un aspetto che richiede dialogo e interazione continui fra le diverse realtà che gestiscono la terapia, struttura sanitaria da un lato e cell factory dall’altro.  

Il patient journey nel caso delle Car-T e le criticità attorno cui si focalizza lo sforzo degli specialisti che lo seguono sono fra gli argomenti trattati nel corso dell’evento Car-T: dall’ospedale al territorio, organizzato da MakingLife e patrocinato da Fondazione Irccs Istituto Nazionale dei Tumori (INT) e Regione Lombardia e che ha visto come Direttore Scientifico Vito Ladisa, Direttore SC Farmacia dell’Irccs. 

Ogni paziente è unico

Gli interrogativi a cui si deve trovare risposta nelle fasi precoci del trattamento con cellule Car-T sono apparentemente banali, ma nella sostanza richiedono un notevole impegno da parte del team multidisciplinare coinvolto. Lo sottolinea Anna Guidetti, oncologo della Fondazione Irccs Istituto Nazionale dei Tumori, introducendo il suo intervento con una consapevolezza appresa dall’esperienza: i casi che si presentano all’attenzione degli specialisti sono più eterogenei di quanto si pensi e l’approccio al singolo paziente, considerato nella sua integrità, deve essere attentamente calibrato, valutato e personalizzato. 

Negli step iniziali occorre verificare che, nel caso dello specifico soggetto, le Car-T siano effettivamente indicate e che quel determinato trattamento soddisfi i criteri di rimborso previsti. Inoltre, è necessario valutare la presenza di eventuali fattori di rischio, a fronte dei quali il reale beneficio per il paziente potrebbe essere messo in seria discussione.

La selezione precoce dei pazienti considerati eleggibili si basa su screening scrupolosi che comprendono la valutazione delle funzioni d’organo di diversi organi, fra cui reni, cuore e midollo osseo. L’ottenimento di valori borderline rispetto a quelli soglia previsti comporta, a discrezione del team che gestisce la terapia, la modifica della dose a cui verranno somministrate le cellule ingegnerizzate o l’adozione di una tempistica di monitoraggio post infusione più stringente. 

I controlli iniziali hanno lo scopo anche di verificare l’assenza di infezioni in atto e la valutazione delle caratteristiche intrinseche del paziente, fra cui la presenza di eventuali geni potenzialmente interferenti con la risposta alla cura e con l’insorgenza di reazioni avverse.

La qualità della raccolta

Come evidenziato da diverse ricerche, esistono fattori prognostici che impattano sulla durata della risposta. 

Fra questi, spiccano le modalità di esecuzione dell’aferesi, una procedura di per sé semplice e relativamente breve che deve tuttavia essere realizzata secondo precise indicazioni e sul paziente nel miglior stato compatibile con la sua malattia. Ai fini delle possibilità di successo del trattamento, il prelievo deve reperire il numero maggiore di cellule possibili nella migliore condizione possibile. Quest’ultimo aspetto risulta problematico nei pazienti in terapia con farmaci quali corticosteroidi e alcuni antitumorali, fra cui la bendamustina, che deprimono l’attività linfocitaria. Per tale ragione, la somministrazione di questi medicinali viene sospesa preventivamente in vista della procedura di aferesi. 

Dal trial ZUMA-1, che ha portato all’approvazione di axicabtagene ciloleucel contro il linfoma diffuso a grandi cellule B (DLBCL) refrattario alle terapie tradizionali, è emerso che il prodotto Car-T ideale contiene linfociti T in numero adeguato, vitali, persistenti e capaci di realizzare un’espansione cellulare soddisfacente. L’espansione, in particolare, è fortemente correlata con la risposta al trattamento. 

Dopo il prelievo dei linfociti T, che avviene nei centri donazione, il paziente può fare ritorno a casa: la sacca contenente le sue cellule verrà consegnata al laboratorio incaricato di effettuare il manufacturing del trattamento.

Uno dei fenomeni che riduce le possibilità di successo delle terapie Car-T è rappresentato dalla resistenza, condizione che può essere acquisita dalle cellule tumorali nei confronti dei linfociti T ingegnerizzati. La resistenza può verificarsi a causa di caratteristiche intrinseche della malattia, ma anche per aspetti legati alla raccolta delle cellule in sede di aferesi e che possono compromettere la capacità dei linfociti stessi di espandersi, pregiudicandone l’azione antitumorale. Il meccanismo con cui ciò avviene non è ancora chiaro, sebbene vi siano evidenze che legano la corretta esecuzione delle procedure a un minore rischio di insorgenza di fenomeni di resistenza. 

Da cellule a farmaco

La spedizione delle cellule dal centro donazioni alla cell factory nella quale verrà allestito il prodotto finale da reinfondere nel paziente può essere effettuata a fresco oppure con il campione congelato. La prima modalità, in particolare, implica un coordinamento preciso fra le strutture coinvolte, pena la perdita delle cellule e, di conseguenza, il mancato accesso del paziente alla cura e lo spreco di preziose risorse economiche pubbliche. Poiché questo punto riveste un’importanza strategica nell’ambito della realizzazione del trattamento, oggi si tende a promuovere la creazione di officine cellulari all’interno degli stessi ospedali nei quali avvengono l’aferesi e la reinfusione. 

Il manufacturing consiste macroscopicamente nella trasduzione ed espansione linfocitaria e impegna dai 17 ai 28 giorni di tempo complessivamente. Sotto questo profilo è importante limitare i tempi, al fine di minimizzare le possibilità di crescita del tumore: ricordiamo, a tal proposito, che patologie come i linfomi di grado elevato possono avere un’evoluzione molto rapida. Per ridurre tale rischio, viene valutata l’opportunità di somministrare al paziente una bridging therapy che lo porti fino alla reinfusione.

La risposta arriva in tempi piuttosto brevi

In attesa della reinfusione dei linfociti ingegnerizzati, il paziente viene sottoposto alla terapia linfodepletiva, di solito con bendamustina, associata a una profilassi antinfettiva. All’ingresso in reparto, viene valutato nuovamente e sottoposto alla predisposizione degli accessi venosi funzionali al trattamento di eventuali emergenze mediche. 

A seguito dell’infusione vengono eseguiti monitoraggi con frequenza inizialmente elevata e poi in graduale riduzione. Se non compaiono sintomi rilevanti, a distanza di 10 giorni dalla procedura il paziente viene dimesso, con l’impegno di tornare per i controlli previsti e le successive rivalutazioni della malattia. Il primo controllo viene effettuato dopo un mese e il secondo dopo tre. La statistica evidenzia infatti come, in genere, i pazienti che rispondono alla terapia lo fanno in tempi relativamente brevi: nella gran parte dei casi, i soggetti che rispondono entro 1-3 mesi continuano a migliorare, tenuto conto del fatto che le recidive tardive sono piuttosto rare. 

I monitoraggi post infusione sono anche finalizzati a valutare l’insorgenza di reazioni avverse gravi, le più comuni delle quali sono la sindrome da rilascio citochinico (Crs, Cytokine Release Syndrome) e la neurotossicità (Icans, Immune effector cell-associated neurologic syndrome). Come sottolineato per tutti i passaggi precedenti, anche nel caso delle valutazioni effettuate in questa fase è indispensabile procedere con la massima attenzione. L’identificazione precoce delle complicanze rappresenta infatti un elemento essenziale, perché correlata a una maggiore possibilità di controllo della loro evoluzione.