Quando si parla di diffusione di batteri resistenti, le specialità chiamate in causa generalmente sono gli antibiotici. Un recente studio prende invece in considerazione i farmaci non antibiotici, dimostrando il loro ruolo nella trasmissione dei geni della resistenza tra i microrganismi.
Farmaci e resistenza batterica: non solo antibiotici
Il 95% delle specialità farmaceutiche vendute a livello mondiale sono farmaci non antibiotici. Il loro grande consumo ne determina però anche una maggiore escrezione da parte dell’organismo. Concentrazioni dei loro principi attivi che vanno dai nanogrammi ai milligrammi vengono infatti riscontrate nelle acque di scarico, ma anche in quelle sotterranee, superficiali e potabili.
Gli stessi luoghi dove i batteri proliferano e possono entrare in contatto con geni dell’antimicrobicoresistenza (ARGs). Molti microrganismi, compresi numerosi patogeni, sono naturalmente capaci di attuare la trasformazione genetica, un meccanismo che permette loro di annettere al proprio corredo genetico DNA proveniente dall’esterno. Il materiale genetico proveniente, ad esempio, da batteri morti può infatti persistere libero nell’ambiente per un lasso di tempo che va da ore a mesi. Il ruolo degli antibiotici nel promuovere questo meccanismo è quindi sempre più approfondito.
Al contrario il ruolo dei farmaci non antibiotici nella trasmissione dell’antimicrobicoresistenza è ancora poco conosciuto. Per questo alcuni ricercatori dell’Advanced Water Management Centre e del Dipartimento di Scienze Biologiche dell’Università del Queensland, in Australia, hanno deciso di approfondire la questione.
Lo studio
Per il loro studio, pubblicato sull’ISME Journal, i ricercatori hanno scelto sei dei più comuni farmaci in commercio, appartenenti a quattro diverse categorie ed elencati nella List of Essential Medicines della WHO. Nello specifico lo studio ha riguardato tre antinfiammatori non steroidei (diclofenac, ibuprofene e naproxen), un ipolipidemizzante (gemfibrozil), un β-bloccante (propranololo) e un mezzo di contrasto (iopromide).
I ricercatori hanno quindi esposto un microrganismo modello a un plasmide libero, codificante per la resistenza ad ampicillina e tetraciclina, e a diverse concentrazioni dei farmaci individuati per lo studio. La scelta del microrganismo è ricaduta su Acinetobacter baylyi, patogeno opportunista spesso rinvenuto nel suolo o negli impianti di trattamento delle acque.
Tutti i farmaci testati hanno dimostrato di influenzare la trasmissione dell’AMR incentivando il meccanismo di trasformazione, tranne la iopromide. Questa tendenza si è manifestata sia attraverso l’incremento della frequenza di trasformazione, sia a livello di aumento del numero di batteri capaci di attuarla. In particolare, gemfibrozil e propranololo hanno dimostrato di incrementare la trasformazione già alla concentrazione molto bassa di 0,005mg/L. Ibuprofene, diclofenac e naproxene invece necessitano di concentrazioni maggiori.
Gli effetti multipli dei farmaci non antibiotici sui microrganismi
Lo studio ha quindi cercato di approfondire altri aspetti legati all’influenza dei farmaci non antibiotici sui microrganismi. I ricercatori hanno così scoperto che queste specialità aumentano i livelli di stress dei batteri, incentivando la produzione di ROS (forme reattive dell’ossigeno) e aumentando la permeabilità della membrana citoplasmatica. In questo modo la captazione di DNA dall’esterno risulta quindi favorita.
Questo effetto, unito all’induzione dell’aumento della capacità di attuare la trasformazione, provoca un incremento nella trasmissione dei geni dell’AMR. Il ruolo dei farmaci non antibiotici nella diffusione della resistenza batterica è quindi tutt’altro che marginale.
In definitiva lo studio ha rivelato che l’entità dell’aumento della trasmissione di AMR causato dai farmaci non antibiotici non è così diverso da quello degli antibiotici. Con la differenza che i primi sono largamente più diffusi. Altre ricerche saranno necessarie per approfondire questi risultati ed estendere l’analisi ad altri farmaci e altri batteri. Tuttavia questo studio può aiutare a direzionare meglio gli sforzi per contrastare un fenomeno tanto pericoloso quanto ormai diffuso.
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